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Per ricordare i morti, dal “cùnsolo” al… selfie: usanze funebri a Biancavilla

Il nostro attuale cimitero fu benedetto nel maggio 1878: oggi è diventato una vera e propria “città”

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© Foto Biancavilla Oggi

Con l’autunno la natura entra in uno stato di riposo dopo i mesi produttivi e frenetici precedenti. Il sole che è stato padrone assoluto del cielo, adesso diminuisce le ore della sua presenza. Quando a Biancavilla tutto dipendeva dall’agricoltura, ai primi freddi di questo periodo veniva seminato il frumento. Nella periodicità dell’anno solare, nel rincorrersi delle stagioni l’uomo vedeva la ciclicità del corso della vita e trovava motivo di speranza perché, esattamente come il chicco di frumento caduto nella terra, non tutto quello che appare privo di vita lo è realmente ma è destinato a trasformarsi e rinascere secondo la legge della natura stessa.

Usi funebri a Biancavilla

Novembre è il mese dei morti, di chi ci ha preceduto e ora non vive più con noi. Motivo di tristezza che vede la morte come evento inesorabile e certo.

Per elaborare il lutto, la mente umana sviluppa infinite strategie che trovano espressione in rituali strettamente privati. Rituali vissuti nell’intimità, oppure pubblici, esternati in gesti e opere atte a celebrare chi non è più.

Nella nostra città, ci informa lo storico Placido Bucolo, gli usi funebri erano un’imitazione di quelli albanesi. Usi che sottolineavano il passaggio da questa vita all’altra con manifestazioni strazianti: u luttu (lo stato di prostrazione dimostrato col vestirsi di nero per un periodo più o meno lungo), l’accumpagnamentu (il corteo al seguito della bara fino in chiesa e poi al cimitero, con tutti i parenti e i conoscenti), u visitu e u cùnsulu (l’andare a trovare a casa i familiari dolenti per consolarli e portare loro alimenti e beni di prima necessità) erano alcune delle pratiche più diffuse e irrinunciabili proprio perché davano “compimento” all’esistenza del defunto e risultavano altamente terapeutiche e consolatorie per chi ne aveva subito la perdita.

Un ruolo importantissimo in queste circostanze era ricoperto dalle confraternite che (già dai primi del Seicento, così come voluto dal Concilio di Trento) si occupavano di assistere i moribondi nell’ultima agonia, di prelevarli da casa e di accompagnarli alla sepoltura una volta deceduti, garantendo un dignitoso funerale anche nelle famiglie più povere.

Fino all’istituzione del cimitero comunale, le confraternite offrivano anche degli spazi per il seppellimento all’interno delle chiese. Ne avevano quelle del Santissimo Sacramento, del Rosario, dell’Annunziata e dei Bianchi.

La Città di chi ci ha preceduti

A Biancavilla il 16 maggio del 1878 viene benedetto il camposanto, voluto su una collinetta facente parte della Silva dei Frati Minori, a destra del convento e della chiesa. Esso diventa il luogo che celebra la morte e l’attesa di una vita imperitura. I loculi e le cappelle divengono anche un modo di manifestare lo status delle famiglie biancavillesi. Le prime sepolture, realizzate alla fine dell’Ottocento erano modeste e semplici, caratterizzate all’esterno da una lastra di pietra dove erano incisi i dati del defunto (in molte non veniva riportata la data di nascita ma solo quella di morte e l’età).

Agli inizi del Novecento cominciarono ad essere realizzate le prime cappelle e le tombe furono arricchite con marmi bianchi e sculture, dovute all’opera di artisti e scalpellini locali anche di notevole bravura. Si afferma nelle architetture lo stile liberty e neoclassico.

Per tutto il secolo, il cimitero si amplia e si incrementa di nuovi sepolcri rispecchianti le idee e i gusti del periodo. Si diffonde l’uso di foto e di nicchie con statue realizzate in serie. E arriviamo alle opere compiute negli ultimi anni. La grande cappella funeraria comunale realizzata nel 2017, in seguito dedicata al patrono San Placido. L’altra cappella comunale, dedicata ai donatori d’organi: una targa marmorea ricorda i nomi dei biancavillesi che hanno compiuto il nobile gesto di altruismo. La collocazione, nel marzo 2022, di una stele per ricordare i cittadini e i camici bianchi morti a causa della pandemia da Covid.

La Giornata dei defunti

Il 2 novembre, l’usanza vuole un alternarsi di persone salire e scendere lungo i vialetti di questa Città che celebra il ricordo e la speranza e dovrebbe essere del silenzio e della riflessione, per depositare un fiore e recitare una preghiera. Tuttavia nemmeno questo luogo viene esentato dal chiasso e dal disordine. Spesso vengono lasciati rifiuti e non mancano – durante tutto l’anno – gli atti vandalici e le ruberie.

Segni del mutare dei tempi? Non del tutto se già qualche decennio fa, qualcuno faceva scrivere ai piedi della propria statua funeraria, sul retro di un loculo: «Non mi toccate / lasciatami stare / nel mio sonno eterno / coloro che mi / toccheranno / saranno maledetti / per la vita eterna».

E se qualcuno, in questi giorni, davanti alla tomba del proprio caro, non resiste alla tentazione di fare un selfie, c’è da pensare che forse anche questo potrebbe essere un modo nuovo per affrontare la paura della morte e far continuare a vivere nel proprio ricordo chi ci ha preceduti in questa vita. Chissà.

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Premiata la biancavillese Elena Cantarella per un saggio su Pippo Fava

Importante riconoscimento per l’artista, nota per il suo talento nella lavorazione della cartapesta

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Importante riconoscimento per l’artista biancavillese Elena Cantarella, maestra della lavorazione della cartapesta nella bottega catanese “Cartura”, fondata da Alfredo Guglielmino nel 1998.

Al Piccolo Teatro di Catania, Elena Cantarella ha ricevuto il premio storico-artistico della Fondazione Giuseppe Fava di Catania “Giovanna Berenice Mori”. Un premio intitolato alla compianta storica dell’arte e al suo appassionato lavoro di studio e ricerca dell’opera pittorica di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia a Catania nel 1984.

Cantarella ha vinto scrivendo un saggio dal titolo “Giuseppe Fava. Oltre il segno”. «L’arte per Fava – scrive Cantarella – è testimonianza della continuità tra la sua attività di giornalista e quella di artista, non è solo uno sfogo, ma un’ineluttabile esigenza comunicativa, espressione concreta degli aspetti più profondi della sua anima».

«Il mezzo artistico – prosegue Cantarella – realizza la sua necessità di tradurre la realtà attraverso uno strumento che rispetto alla parola possa avere un linguaggio universale, senza abbandonare la sua intimità di significato: nelle immagini, nel colore, nel segno i suoi sentimenti si mescolano con quelli degli uomini e delle donne su cui posa lo sguardo».

Ad assegnarle il premio la commissione composta dal presidente della Fondazione Fava, da un rappresentante della famiglia Fava e da due docenti dell’Accademia di belle arti di Catania.

Una lettura innovativa sull’arte di Fava

Cantarella, secondo la motivazione, ha «presentato in modo puntuale e preciso, asciutto e piano il lavoro artistico di Giuseppe Fava, coniugandolo con le principali intenzioni artistiche, antropologiche e culturali dell’autore». E ha anche intercettato «l’ironica denuncia caricaturale che Fava mette continuamente in atto» attraverso «l’introspezione, il doppio, lo studio sui volti» e promuovendo una lettura innovativa e un «valido approfondimento dell’opera faviana».

All’intermezzo musicale curato da un quartetto d’archi dell’orchestra “MusicaInsieme” di Librino è seguita la cerimonia di premiazione del concorso giornalistico Giuseppe Fava “Apri la finestra sulla tua città e raccontaci dove vedi la mafia, l’illegalità, le ingiustizie”.  Tra i vincitori di quest’ultimo concorso, una scuola del quartiere Zia Lisa di Catania, che ha realizzato una video-inchiesta molto coraggiosa, e un ragazzo di Giarre.

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