Cultura
Il “viaggio” per Sant’Alfio e l’ex-voto di un biancavillese “miracolato” nel 1943
Il tradizionale pellegrinaggio a Trecastagni: una devozione popolare espressa anche con tavole dipinte

Il nove e il dieci maggio, mentre ai piedi della Montagna incalza la primavera, un lungo, spontaneo corteo ogni anno si snoda nella strada che congiunge i paesi etnei. Viva sant’Affiu! si sente di tanto in tanto echeggiare in una invocazione intima che diventa esplosione di forza, di patos e di fede.
Centinaia di pellegrini da Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Ragalna, Paternò si uniscono a quelli di Belpasso, Nicolosi e Pedara. Una fila sempre più numerosa e fitta man mano che ci si avvicina a Trecastagni. Qui sorge il Santuario dedicato ai santi Alfio, Filadelfio e Cirino. Ed è qui che si svolge una tra le più importanti, colorate e caratteristiche feste della Sicilia.
Totale fiducia nel Divino
L’esistenza dei nostri avi è stata sempre caratterizzata da un’incondizionata fiducia nel Divino. Di frequente essi si rivolgevano a Dio, alla Madonna e ai santi per ricevere quello che la realtà della vita negava o minacciava seriamente. Una malattia, un disastro economico, oppure un pericolo improvviso, spingevano a rivolgersi a Coloro che tutto potevano. La richiesta di una grazia particolare, urgente ed estremamente necessaria, induceva a legarsi a un santo mediante un voto, ovvero la promessa di un dono o di un gesto che avrebbe comportato un sacrificio da parte di chi lo emetteva e l’affidamento totale al protettore.
Una devozione antica
Nella Sicilia Orientale, il culto verso questi martiri si diffonde soprattutto dopo il 1516, in seguito al ritrovamento dei loro corpi presso il monastero di San Filippo di Fragalà.
A Biancavilla la devozione verso i tre fratelli – molto viva e sentita anche oggi – presumibilmente è stata portata alla fine del Seicento quando, a seguito dell’eruzione del 1669 e del terremoto del 1693, nel nostro territorio si stabilirono diversi abitanti di Trecastagni, Nicolosi e Pedara che già li veneravano. L’espressione di culto più diffusa tra i biancavillesi è “u viaggiu” dalla propria casa fino al santuario (a circa 25 chilometri). Il viaggio a piedi (spesse volte scalzi) oppure di corsa, nudi (con pantaloni corti bianchi e una fascia rossa sul torace), con candele e grossi ceri di svariate decine di chili, viene compiuto per portare a compimento a prummisioni, la promessa.
Un secolo fa, la stessa strada era percorsa da decine e decine di carrozze che accompagnavano i pellegrini a Trecastagni per poi tornare a prenderli all’ora stabilita. Ogni carrozza nell’arco delle ventiquattro ore faceva anche otto o nove viaggi. Altri si organizzavano come potevano: con muli, cavalli o a piedi per l’andata e il ritorno.
Fino agli anni ’50, era possibile vedere qualche devoto all’ingresso della chiesa sciogliere il suo voto mettendosi “cc’a lingua a trascinuni” sul pavimento, per arrivare così fino al presbiterio. Tale pratica eccessivamente cruenta è stata abolita. Oggi, giunti nel santuario, l’invocazione si manifesta col grido «È vostri peri semu, sant’Affiu» oppure «Ccu tuttu u cori, sant’Affiu», prima di inginocchiarsi e pregare silenziosamente.
Cercando tra gli ex-voto
Il pellegrinaggio generalmente continua con la visita alle sale del Santuario. Qui sono presenti migliaia gli ex-voto, prodotti a partire dall’Ottocento, in quello che è stato definito il museo del dolore e della fede.
Quadretti raffiguranti il miracolo ricevuto e manufatti in cera con sembianze anatomiche. Manufatti raffiguranti cuori, gambe, reni, mani, mammelle che testimoniano guarigioni di altrettanti parti del corpo affette da malattie. Bavaglini o indumenti richiamano l’evento di una nascita desiderata e ottenuta dopo tante preghiere. E ancora: stampelle, protesi e tanti altri oggetti indicano la fede semplice e forte di chi li ha donate.
Cercando tra le immagini naif addossate alle pareti, troviamo un “miracolo” (così vengono chiamate comunemente le tavolette dipinte) che rappresenta l’evento riguardante proprio un biancavillese. L’episodio raccontato reca in basso la scritta:
MIRACOLO CONCESSO A LA DELFA PLACIDO DI PASQUALE DA BIANCAVILLA IL GIORNO 11 AGOSTO 1943 MENTRE PERCORREVA COL CARRO LO STRADALE NEI PRESSI DI SFERRO UNA MINA RESIDUO DI GUERRA ESPLODEVA LASCIANDOLO MIRACOLOSAMENTE SALVO.
E così uno scampato pericolo, un fatto ritenuto soprannaturale, assieme alle altre testimonianze, ancora oggi riesce a raccontare la religiosità e le credenze. Ma anche i costumi, le pratiche e i modi di vivere della nostra gente e della nostra terra nei tempi passati. La nascita di un figlio, il completamento di una casa, l’avvenuto matrimonio erano occasioni irrinunciabili per “andare a sant’Alfio”. Un dovere religioso dal quale nessuno si poteva astenere.
Di ritorno, spendendo pochi spiccioli, era obbligo poi portare a casa, oltre all’immancabile immagine dei tre martiri, un mazzo d’aglio novello, un berretto col pompon (‘a coppila cc’u giummu), un tamburello o un fischietto. Era uso appenderli dietro la porta, allo scopo di augurare felicità e serenità a tutta la famiglia e auspicare che quel giorno di primavera potesse prolungarsi per l’intero anno.
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Cultura
Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati
Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.
Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.
“U Signuri” e i quartieri in festa
In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.
Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.
Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.
Gli altarini con le lenzuala bianche
Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.
Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.
Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati
Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.
Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.
Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.
Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.
Tradizione che si rinnova
Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.
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Cultura
Frammenti di ricordi sugli anni ’50, ’60 e ’70 raccontati da Giuseppe Petralia
“Ci fu un tempo in cui…”: a Villa delle Favare, SiciliAntica ha presentato il libro del cronista biancavillese

Un tuffo tra gli anni Cinquanta e Settanta, tra personaggi, quartieri e abitudini di vita di un tempo. Racconti di gioventù, aneddoti, figure emblematiche e momenti quotidiani che oggi appartengono alla memoria collettiva.
È questo il cuore del libro “Ci fu un tempo in cui… frammenti di ricordi su fatti e personaggi“, firmato dal giornalista Giuseppe Petralia e pubblicato da Algra Editore. L’opera è stata presentata a Biancavilla, nella sala conferenze di Villa delle Favare, in un incontro promosso da “SiciliAntica”.
Ad aprire la conversazione è stato Enzo Meccia, presidente dell’associazione, che ha presentato l’autore e sottolineato il valore dell’opera nel contesto della memoria storica locale.
Ad accompagnare la presentazione, l’intervento di Salvuccio Furnari, cultore di Storia Patria, che ha offerto una lettura appassionata e coinvolgente del volume, mettendo in luce l’efficacia narrativa dell’autore nel restituire atmosfere e personaggi ormai scomparsi. Petralia descrivere la bellezza dei personaggi e delle storie di un mondo che non c’è più, rendendolo vivo e comprensibile anche ai più giovani. Lo fa, proponendosi non come scrittore ma con gli strumenti del cronista.
Nel libro, infatti, Petralia raccoglie esperienze e fatti vissuti, attingendo alla sua lunga carriera giornalistica e a una collaborazione cinquantennale con il quotidiano “La Sicilia”. E come cronista è animato dal desiderio di trasmettere ai lettori – e in particolare alle nuove generazioni – uno spaccato autentico di vita, quando «senza cellulari e computer, si sapeva vivere meglio».
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