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«W Maria» tra distrazioni e frastuoni: non è più tempo di preghiere sottovoce

Biancavilla in festa per la Madonna dell’Elemosina: breve “cronaca” alternativa di una persona devota

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© Foto di Michele Furneri

Una piazza distratta. Non piena, ma disattenta. Troppe cose, tutte insieme. Luci, campane, il vescovo che fa la sua preghiera, invoca umiltà all’interno della Chiesa, chiede pace e rispetto nelle famiglie, auspica maggiore armonia col creato e con Dio… Nel frattempo, ancora campane, banda, musiche assordanti da potenti altoparlanti (ma di canti sacri!!!).

Il sindaco fa nuovamente il suo saluto, non era preparato forse. I cantanti… devono cantare l’Ave Maria: «Prova… prova. Scccc… si sente».

Scout che salutano, confrati che non sanno quale strada prendere: scorciatoia o giro lungo, visto che sono quasi le nove e mezzo? Alla fine, giro lungo perché la sfilata deve passare sotto l’arco di luminarie.

Intanto, dall’altoparlante: «W Maria…». Ah, vero: la Sacra Icona, che da diversi secoli (forse non proprio da 500 anni, ma questo è un dettaglio) fa la storia religiosa del nostro paese, è lì davanti al sagrato. Una volta, questo sarebbe stato il momento per rivolgere a Lei una preghiera. Sottovoce. Col cuore. Semplicemente. Una preghiera.

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Mafia a Biancavilla, quei fallimenti educativi al di là della cronaca

Il processo “Ultimo atto” e gli spunti di riflessione sui “buoni” e i “cattivi” che vivono a fianco

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Una comunità di persone vive anche di queste informazioni, ossia illustrare le attività investigative delle proprie agenzie di controllo. «Blitz “Ultimo atto”, la Procura chiede 125 anni di carcere per 13 imputati», è l’articolo con cui Biancavilla Oggi ci aggiorna sul «rito abbreviato per Pippo Mancari “u pipi” e i suoi picciotti, accusati di mafia, droga ed estorsioni». Normalmente è così: si parla dell’organo che ha indagato, del reato, possibilmente con le ipotesi del guadagno illecito, le attività criminose, i comportamenti, le vittime, spesso senza nome, o soltanto alcune di quelle che in realtà hanno subito. Poi si passa ai criminali, le facce, gli anni di galera previsti, l’attesa del giudizio. Tutto in una sequenza che sembra esaustiva e completa. Poi vedremo le condanne, la sentenza, l’appello, etc.

Questo ci basta? Ci basta questo per sentirci a posto come cittadini? Sembra di assistere ad un canovaccio uguale e distante da noi, anche se stiamo parlando di persone e gente che incontriamo ogni giorno. Mi chiedo: questa operazione di polizia e la sua divulgazione ci bastano per la nostra idea di comunità? Non c’è forse un tratto di vita tra carnefici e vittime che ci potrebbe interessare di più? La frattura al contratto sociale si ricompone da sola? Mi chiedo. Loro sono i cattivi, o quelli che hanno sbagliato – e si vede dalle facce – e noi siamo i buoni? È proprio così?

In realtà nelle strade e nelle piazze siamo lì, insieme, ognuno per la propria vita, ma tutti accanto l’uno all’altro. Questo tipo di notizie, che diventano solo cronaca, non sono fin troppo indifferenti alla vita di chi ha sbagliato e di chi ha subito il torto.

Come possiamo fare per capire ciò che potremmo fare in termini comunitari? Perché si continua a chiedere il pizzo e si continua a spacciare, nonostante le pene previste? Parlo ovviamente in termini generali e non su questo caso specifico.

Io penso che dove si commette un reato di questa portata, qualcosa non ha funzionato anche prima ed anche in tutti noi. In questa comunità di persone c’è stato un fallimento. Reati del genere coinvolgono molte più persone, atteggiamenti, comportamenti, amicizie, conoscenze. Un mare di persone. E molto tempo prima ha lasciato che le cose sfuggissero di mano. Reati del genere parlano di fallimenti educativi in primis, poi di tante altre cose. C’è il momento della condanna, dopo le indagini, ma il momento per comprendere come siamo arrivati, un’altra volta a queste situazioni quando? Quando comprenderemo di quali passaggi è fatto un percorso di comunità in questa direzione?

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