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Cultura

La “zazzamita”: ecco perché non c’è motivo di temere un innocuo animaletto

Parliamo del geco: presente nelle credenze popolari, nelle tradizioni folkloriche e in letteratura

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Alla vista di un geco molte persone hanno una istintiva repulsione, una irrazionale paura, dettata probabilmente da credenze popolari relative all’innocuo animaletto oppure al suo aspetto considerato sgradevole, come recita una poesia di Nino Martoglio (L’omu):

L’omu è chiù bruttu di la zazzamita,

chiù leggiu di la negghia e la cumeta,

svinturata cu’ è ca sì marita,

passa sett’anni di mala praneta!

Per quanto riguarda le credenze popolari, esse sono ambivalenti in quanto sono polarizzate fra considerazioni positive e negative del piccolo rettile. Sin dall’antichità, infatti, secondo alcuni (Aristofane, Virgilio, Columella), il geco era un animale pericoloso e addirittura velenoso, secondo altri (Plinio il Vecchio), era un animale utile, poiché la pelle del geco era usata sia per curare l’epilessia, sia come antidoto al veleno dello scorpione.

Nelle tradizioni popolari siciliane, come dice Pitrè, il geco incute(va) molta paura, perché «se piscia sugli occhi fa accecare». In altre tradizioni folkloriche, come quelle napoletane, il geco è collegato a una fata capricciosa, la bella Mbriana (lett. “Meridiana”), è considerato un portafortuna e le persone si guardano bene dal cacciarlo via o dal disturbarlo. In altre culture, grazie al fatto che, per sfuggire ai predatori, perde facilmente la coda che ricresce, il geco è simbolo di rigenerazione, di adattabilità, forza e vitalità e si ritrova per esempio nei tatuaggi.

È bene però ribadire che si tratta pur sempre di credenze e che il geco, oltre ad essere un animaletto innocuo, è anzi molto utile all’uomo e all’ecosistema, perché si nutre di mosche, zanzare, scarafaggi, falene ecc.

Scrittori alle prese con la “zazzamita”

Il geco in Sicilia ha tanti nomi, ma a Biancavilla, e generalmente in area orientale, si chiama zzazzamita. Oltre al già visto Martoglio, sono diversi gli scrittori e le scrittrici che usano questo termine nell’italiano regionale letterario, a partire dal saggio del grande latinista e uomo politico Concetto Marchesi (Il cane di terracotta, 1954):

No, santa Madre di Dio: come direbbero il cane, il gatto, il gallo d’India, le lucertole, le zazzamite, le pietre della strada se potessero parlare. I conti te li ho messi sotto il muso.

Per proseguire con Luigi Bruno di Belmonte (Il marchese Lorenzo, 1968):

Uno di questi giorni ti metterò una zazzamita affamata nel letto, eccellenza. – Bravo, Renzo! – esclamò il principe Andrea.

Continuando con Silvana La Spina (L’amante del paradiso, 1997):

E non mi guardare con quegli occhi di lucertola zazzamita, ti darò in cambio questo velo di Mossul, trasparente come la seta.

Non solo perché sua nonna l’aveva avvertito: chi ammazza una zazzamita si trova la casa piena di guai per sette anni. Ma perché lui un giorno l’aveva ammazzata una lucertola, schiacciandola con i piedi – tanto da doversi ripulire del sangue strofinando la suola sulla trazzera di campagna (Un cadavere eccellente, 2011).

Maria Antonietta Musumarra (La collina del giorno dopo. Pagine di diario, 2002):

«Che zazzamite siete!» diceva alle mie sorelle dal vitino di vespa, «non sapete ingrossare?». Ma a noi bambini, pure piccole zazzamite, cioè gechi, infilava nelle tasche dei cappotti monetine di rame, nuove di zecca.

Giuseppe Bonaviri (Il vicolo blu, 2003):

…era sicuro che avrebbe contato il maggior numero di quelle tarantole dei muri, a Mineo chiamate “sulufrizzi” (A Catania, zazzamìti, in Malesia…gekòq).

Dal greco bizantino al siciliano

E non andiamo oltre… ma occupiamoci adesso dell’interessante origine della voce. Il tipo zzazzamita, insieme alle numerose varianti, intanto deriva dal greco bizantino ψαψαμίθα (psapsamìtha). Oltre al questa forma, il greco bizantino conosceva altre varianti, come σαλαμίδα (salamìda), da cui le forme siciliane salamita, salamira, salamizza ecc., e soprattutto σαμαμίθιον (samamìthion) e σαμαμίθι (samamìthi), da cui le forme di area messinese samamizza, simamizza, sumamizza ecc.

Potremmo fermarci qui, ma il grande linguista e dialettologo tedesco, Gerard Rohlfs, dice che le forme del greco bizantino, per es. σαμαμίθι, derivano dall’ebraico semamīth. Sul significato da attribuire alla parola ebraica (usata in Proverbi, 30, 28) le opinioni sono state discordanti: da chi la interpretava come il nome di una rondine, di un ragno, a chi di una scimmia, di una lucertola (così secondo la traduzione e della CEI) e finalmente di un geco.

Dato che nella traduzione dei ‘Settanta’, quella cronologicamente più vicina al testo ebraico, la parola viene resa con καλαβώτης (kalabōtēs), e nella «Vulgata» con stellio, non dovrebbero sussistere dubbi circa l’identificazione di ebr. semamith con il ‘geco’ o con una specie di ‘lucertola’.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Cultura

Premiata la biancavillese Elena Cantarella per un saggio su Pippo Fava

Importante riconoscimento per l’artista, nota per il suo talento nella lavorazione della cartapesta

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Importante riconoscimento per l’artista biancavillese Elena Cantarella, maestra della lavorazione della cartapesta nella bottega catanese “Cartura”, fondata da Alfredo Guglielmino nel 1998.

Al Piccolo Teatro di Catania, Elena Cantarella ha ricevuto il premio storico-artistico della Fondazione Giuseppe Fava di Catania “Giovanna Berenice Mori”. Un premio intitolato alla compianta storica dell’arte e al suo appassionato lavoro di studio e ricerca dell’opera pittorica di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia a Catania nel 1984.

Cantarella ha vinto scrivendo un saggio dal titolo “Giuseppe Fava. Oltre il segno”. «L’arte per Fava – scrive Cantarella – è testimonianza della continuità tra la sua attività di giornalista e quella di artista, non è solo uno sfogo, ma un’ineluttabile esigenza comunicativa, espressione concreta degli aspetti più profondi della sua anima».

«Il mezzo artistico – prosegue Cantarella – realizza la sua necessità di tradurre la realtà attraverso uno strumento che rispetto alla parola possa avere un linguaggio universale, senza abbandonare la sua intimità di significato: nelle immagini, nel colore, nel segno i suoi sentimenti si mescolano con quelli degli uomini e delle donne su cui posa lo sguardo».

Ad assegnarle il premio la commissione composta dal presidente della Fondazione Fava, da un rappresentante della famiglia Fava e da due docenti dell’Accademia di belle arti di Catania.

Una lettura innovativa sull’arte di Fava

Cantarella, secondo la motivazione, ha «presentato in modo puntuale e preciso, asciutto e piano il lavoro artistico di Giuseppe Fava, coniugandolo con le principali intenzioni artistiche, antropologiche e culturali dell’autore». E ha anche intercettato «l’ironica denuncia caricaturale che Fava mette continuamente in atto» attraverso «l’introspezione, il doppio, lo studio sui volti» e promuovendo una lettura innovativa e un «valido approfondimento dell’opera faviana».

All’intermezzo musicale curato da un quartetto d’archi dell’orchestra “MusicaInsieme” di Librino è seguita la cerimonia di premiazione del concorso giornalistico Giuseppe Fava “Apri la finestra sulla tua città e raccontaci dove vedi la mafia, l’illegalità, le ingiustizie”.  Tra i vincitori di quest’ultimo concorso, una scuola del quartiere Zia Lisa di Catania, che ha realizzato una video-inchiesta molto coraggiosa, e un ragazzo di Giarre.

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