Connect with us

Cultura

“Cattivu” oppure “tintu”? Due storie divergenti ma con un fondo comune

Termini che ci riportano alla vedovanza in epoca normanna e al battesimo nel primo cristianesimo

Published

on

Per esprimere il concetto di “cattivo, malvagio”, a Biancavilla e in tutta la Sicilia non si dice cattivu ma tintu. Infatti, per contrapporre qualcosa o qualcuno a bbonu “buono” in tutte le sue accezioni, sia nella sfera morale che in quella materiale, noi diciamo tintu. Per esempio, n cristïanu tintu è una “persona malvagia”, èssiri tintu di sapuri è riferito a un alimento “che ha un cattivo sapore”, tempu tintu è il “maltempo”. E ancora, èssiri na cosa tinta vale “essere moralmente riprovevole”, ma acquista significato ironico in frasi, del tipo unn’è ḍḍa cosa tinta di sa marito, di ta paṭṛi, di ta frati? ecc. dette da un amico intimo in riferimento a una persona assente alla discussione e col significato antifrastico di “brava persona”.

Anche chi sta male si sente tintu, e malatu tintu è il “malato grave, in fin di vita”, anche se si preferisce la variante antifrastica ed eufemistica malatu bbonu. Pensiamo, adesso, a uno a cui non piace la verdura. Si dice che è-ttintu di manciàri virdura, ma tintu di manciàri, usato assolutamente, è riferito in generale a chi mangia poco e soprattutto ai bambini con poco appetito.

Ma gli usi di tintu non sono finiti. Troviamo ancora i significati di “triste, infelice”, oppure “sfortunato”, per esempio nel proverbio tintu cu mori (ca cu rresta si marita) “la sfortuna è di chi muore, ché i superstiti dimenticano”. Col valore di sostantivo, infine, u tintu è usato come sostitutivo tabuistico del nome del diavolo.

Da “captiva” ai Normanni

Se dunque “cattivo” si dice tintu, che cosa significa, invece, cattivu? Probabilmente i più giovani ormai non conoscono questa parola che, a dire il vero, nasce prima come aggettivo e nome femminile, cattiva. Bene, cattiva non è una donna malvagia, ma una “vedova”, una donna a cui è morto il marito. Ma se anche cattivu, direste voi, significa “vedovo”, perché la parola nasce prima come femminile? La risposta è nella storia della parola e nelle antiche usanze popolari. Sul piano etimologico, infatti, cattiva deriva dal latino CAPTIVA “prigioniera, reclusa in casa”. E cosa c’entra, direte sempre voi, l’essere reclusa in casa con la vedovanza?

C’entrano le regole stabilite in Sicilia e altrove dai Normanni. Regole secondo le quali, le vedove non potevano apparire in pubblico, ma solamente nelle chiese per assistere gli officianti nelle cerimonie del culto. Per tale usanza, fino a epoca recente, le vedove per sei mesi o un anno non uscivano di casa e assistevano solamente alla messa detta all’alba e mai alle funzioni chiesastiche estive (Cortelazzo-Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti italiani).

Successivamente il termine si è esteso al maschile, cattivu o cattìu, per indicare il vedovo, anche se quest’ultimo non rimaneva recluso in casa (in un’ottica di genere, è un bell’esempio di nome maschile che deriva dal femminile). Come aggettivo, il termine si trova nel composto nuci cattiva, che indica il cipresso (Cupressus sempervirens), detto anche chjuppu, e la galla del cipresso. Il nome, alla lettera “noce vedova”, potrebbe alludere al fatto che il cipresso, albero solitario, è per eccellenza l’albero dei cimiteri.

Da “tinctus” alle dispute ecclesiastiche

Torniamo adesso a tintu. Etimologicamente, la voce deriva dal latino TINCTUS, participio di TINGERE “intingere, immergere”, che nel latino cristiano ha assunto il significato di “immergere nel fonte battesimale” e quindi “battezzare”, secondo l’uso del primo Cristianesimo. Tintu, dunque, letteralmente vale “battezzato”. Ma a questo punto, perché, direte ancora voi, tintu, cioè “battezzato” significa tintu, cioè “malvagio”? Per capirlo, partiamo dall’espressione siciliana tintu e-mmalu vattïatu “malvagio e tristo”, in cui possiamo notare l’equivalenza tra tintu e malu vattïatu; in altre parole, una persona è tinta, cioè “malvagia”, perché ha ricevuto un cattivo battesimo.

Fatto questo passo avanti, ne dobbiamo fare un altro, per comprendere come, quando e perché tintu “battezzato” è diventato prima “battezzato male” e poi “malvagio”. Durante il breve papato di Stefano (254-257) si innescò una disputa sul tema dei battesimi somministrati da eretici. Mentre per la Chiesa di Roma l’efficacia del sacramento non dipendeva dallo stato di grazia di chi lo somministrava, ma dall’intenzione di compierlo in nome della Trinità, per la Chiesa d’Africa, d’Asia Minore e di Siria si richiedeva una nuova somministrazione del sacramento per quei cristiani che fossero stati battezzati da un eretico.

In questa disputa, che coinvolse anche la Sicilia, il lat. tinctus “battezzato” assunse la connotazione negativa di “battezzato da un eretico” in opposizione a chi era invece baptizatus “battezzato secondo i canoni dell’ortodossia”. In questo scontro i baptizati consideravano malvagi i tincti. Ed ecco il significato attuale di tintu che deve il suo cambiamento ai conflitti sorti all’interno delle prime Chiese cristiane, precedentemente all’affermazione definitiva della Chiesa cattolica.

A un’altra disputa con i pagani o con gli eretici si deve, invece, il significato dell’italiano cattivo, derivato anch’esso dal latino captivus “prigioniero”. In queste dispute in cui i cristiani accusavano i nemici di essere captivi diaboli “prigionieri del diavolo”, nel corso del tempo si è affermato il significato attuale di cattivo “malvagio”.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

ORDINA ONLINE

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Cultura

Memorie della famiglia Piccione: uno squarcio nella storia di Biancavilla

Nel libro di Giosuè Salomone una ricostruzione accurata con aneddoti e una ricca documentazione

Published

on

Le pagine iniziano con la trascrizione dell’audio della voce di nonna Concettina, classe 1877, che, ignara di essere registrata, narra episodi riguardanti i suoi stessi nonni e quindi arrivando a fatti risalenti al XVIII secolo. Prende il via così un viaggio che, attraverso le storie e mediante la puntuale ricostruzione narrativa di luoghi e situazioni riportate da Giosuè Salomone, con la precisione di un matematico e con la passione di chi si sente parte viva e attiva di ciò che scrive, ci fa scoprire e riscoprire la storia del nostro paese, ci fa rivivere la realtà della nostra comunità fin quasi alle origini stesse, facendo parlare i documenti.

Il suo ultimo lavoro di ricerca è intitolato “Per sé e per la delizia degli amici, la famiglia Piccione di Biancavilla” (Giuseppe Maimone Editore, 180 pagg.).

Il capostipite Thomas Piccione si stabilisce a Biancavilla tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, probabilmente inviato dai Moncada, signori della contea di Adernò, di cui Biancavilla faceva parte. Nei decenni successivi i discendenti, che come il padre, probabilmente svolgevano il mestiere delle armi al servizio del loro signore, assumono un ruolo fondamentale nella società paesana.

Francesco viene investito del titolo di barone di Grassura e del Mulino d’Immenzo, e i suoi discendenti si dedicano alla costruzione di un mulino, di alcune chiese, ne restaurano e abbelliscono altre. Furono i principali mecenati del pittore Giuseppe Tamo. Acquistano terreni e, mediante matrimoni e padrinati nei battesimi, riescono a stringere relazioni con altre famiglie aristocratiche del circondario, accrescendo in importanza e prestigio.

Un viaggio lungo i secoli

Tra i vari racconti di nonni, bisnonni, zii e prozii, approfonditi e corroborati da atti notarili e testamenti, lettere, fogli di famiglia e altre carte, si riesce a desumere uno spaccato della società biancavillese durante i secoli, anche quelli più oscuri e incerti del Seicento e degli inizi del Settecento. E si arriva al Risorgimento, ai moti patriottici, all’Unità d’Italia e al periodo turbolento che la seguì (la storia di Piccolo Tanto – Ferdinando Piccione – è veramente emblematica e suggestiva).

Fanno da sfondo il palazzo Piccione, lo scrigno che ha custodito eventi e, come è naturale che sia, circostanze intime e quotidiane per ben dieci generazioni a partire da Giosafat Piccione, rappresentando un continuum nella storia di famiglia. E poi u giardineddu do’ spasimu, un appezzamento di terreno a sud del centro abitato voluto da Salvator Piccione «per sé e per la delizia degli amici» (frase incisa in latino sull’arco d’ingresso del podere). Il quartiere di san Giuseppe dove sorge quella che fu la cappella presso la corte di palazzo.

Tra le pagine emergono anche i tratti psicologici e caratteriali di molti personaggi del casato ma, di rimando, pure quelli di molti compaesani del tempo ormai passato. Affiora perfino un certo lessico familiare che varca i decenni e, attraverso aneddoti e storielle, perpetua le memorie di famiglia.

Nella seconda parte del volume, diverse appendici, allargano la ricerca di Giosuè Salomone, e la arricchiscono con svariati contributi: cartine topografiche, piantine e alberi genealogici che, quando saranno approfonditi dai lettori, riveleranno indubbiamente tantissime curiosità e chissà, permetteranno a ogni appassionato di rivedersi in qualcuno dei personaggi o ritrovarsi, magari con la sola fantasia, in una delle vicende descritte…

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Continue Reading
Advertisement

DOSSIER MAFIA

I più letti

Registrazione al Tribunale di Catania n. 25/2016
Iscrizione al Roc n. 36315
Direttore responsabile: Vittorio Fiorenza

━━━━━
Nel rispetto dei lettori e a garanzia della propria indipendenza, "Biancavilla Oggi" non chiede e rifiuta finanziamenti, contributi, sponsorizzazioni, patrocini onerosi da parte del Comune di Biancavilla, di forze politiche e soggetti locali con ruoli di rappresentanza istituzionale o ad essi riconducibili.
━━━━━