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I primi carri realizzati nel dopoguerra: il Carnevale di un tempo a Biancavilla

Le nostre tradizioni: duminò e callà, luminagghi e pranzi grassi: quando la festa era di “panza”

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Stiamo vivendo le festose giornate di Carnevale, in una edizione che per la varietà degli eventi in programma sta facendo uscire di casa proprio tutti, dai giovanissimi agli studenti alle famiglie, senza dimenticare i più fragili. Le sfilate dei gruppi in maschera, i carri allegorici (particolarmente curati e realizzati con abilità da maestri e appassionati biancavillesi), le esibizioni al palatenda allestito nella piazza grande, momenti “dolci e salati” fatti di chiacchiere, torte e maccheronate, sono occasioni di socialità e divertimento che confermano il detto biancavillese «Carnalivari è festa di panza!» e provano l’efficacia di una formula vincente perché presenta idee originali ed è realizzata con la partecipazione e la collaborazione tra il Comune e le associazioni e le attività commerciali presenti nel territorio.

Duminò e Callà

Il nostro paese, fino a non molti anni fa, aveva delle usanze carnascialesche particolari.

Prima fra queste, era l’uso di un costume chiamato duminò, consistente in un lungo mantello colorato col cappuccio sul quale venivano fatti due buchi per poter vedere. Uomini e donne lo indossavano per fare il giro delle strade, dei vicini e dei conoscenti, ai quali tiravano scherzi di vario tipo, talora perfino pesanti, approfittando del fatto di non essere riconosciuti (o sperando di non esserlo!).

Comitive di “ragazzacci” in piazza aspettavano il passaggio di qualcuno per attaccargli dietro ‘a callà, un pezzo di stoffa colorata. E quando questi aveva fatto qualche metro tra la gente che si voltava, lo beffeggiavano a gran voce dicendo “‘a callà! ‘a callà!” (padre Bucolo fa derivare il termine da ah, che l’ha?!). La stessa cosa si gridava all’ignaro ospite di qualche famiglia burlona al quale si offriva un dolce al cui interno era nascosto un pezzo di stoffa o un po’ di carta, e questi era costretto a sputarla dalla bocca. Se qualcuno osava mostrarsi arrabbiato, prontamente lo si motteggiava dicendo: “‘a callà, a cu cci tocca cci sta!”, ed anche: “a carnalivari agni sgherzu vali: cu si ‘ffenni è ‘mmaiali!”.

U Carnalivari e i luminagghi

Agli angoli delle strade o davanti la porta di casa, i bambini, aiutati dai genitori, creavano un fantoccio di pezza con vecchi cenci, lo sedevano su una vecchia sedia mettendogli in mano una scopa o un bastone e gli davano il generico nome di Carnalivari.

Consuetudine molto diffusa era quella di proporre agli amici i luminagghi, indovinelli popolari che spesse volte sotto l’apparenza di audaci doppi sensi, racchiudevano soluzioni ingenue, facilissime e divertenti. Eccone qualche esempio:

Spingiti, spingiti sta cammisedda

quantu ti fazzu ‘na cosa.

Nan ti scantari ca ti trasi tisa

e dumani ti susi comu ‘na rosa. Cchi è?  A gnizzioni.

Un’altra:

Aju ‘na bbadda ccu setti purtusa. Cchi è? A testa.

E ancora:

Cci aju ‘na cosa pilusa pilusa

ca trasi e nesci purtusa purtusa. Cchi è? A jatta.

Dai pranzi grassi ai primi carri

Nelle settimane precedenti il carnevale, si preparavano in casa i maccarruna oppure ‘a pasta cch’i cincu purtusa da condire col sugo (un ragù ristretto di pomodoro cotto insieme alla carne di manzo). Queste pietanze risultavano molto ricercate e si gustavano in occasioni particolari come ‘u  joviri de’ cummari (prima del giovedì grasso), chiamato così perché in questo giorno era obbligo sociale invitare a pranzo i consuoceri. Al riguardo, un detto popolare così recita: Ppi lu joviri di’ cummari cu’ nan cci avi dinari s’impigna ‘u fadali; ppi lu joviri aggrassu cu’ nan cci avi dinari s’arrusica l’ossu!

Nel secondo dopoguerra, assecondando una ritrovata voglia di ridere e divertirsi dopo il tragico periodo bellico, si cominciarono a costruire i primi carri allegorici (famosi quelli creati dai giovani del Convento dei Frati Minori) che giravano per il paese con frotte di ragazzini dietro. La via Vittorio Emanuele si riempiva di coriandoli e grossi megafoni assordavano le orecchie con le canzoni di Sanremo. Era il tempo in cui un paio di mutande per cappello o dei calzoni ripizzati addosso a qualche ragazza bastavano a suscitare ilarità.

Poi furono di moda le feste private a casa o in alcuni locali. Molto partecipata quella del Circolo Castriota che si svolgeva generalmente il Giovedì Grasso e dove tutti gli iscritti coi familiari si dovevano presentare vestiti in maschera. Ancora oggi si racconta di uno di questi soci, giovane molto serio ed elegante, che in occasione della festa si presentò con un vistoso costume da scheletro ma con una stravagante parrucca e il muso tinto di rosso sgargiante. A chi gli chiedeva di cosa fosse vestito, egli con voce grave rispondeva: di Morti Buttana

A proposito di luminagghi, per concludere, provate a indovinare questa:

Cc’u culu mangia e mangia niuru.

Cc’a ucca caca e caca russu. Cchi è?

(Tratto anche da: Filadelfio Grasso, Almanacco del popolo biancavillese, Biblioteca Comunale “G. Sangiorgio”, Biancavilla, 2007).

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Premiata la biancavillese Elena Cantarella per un saggio su Pippo Fava

Importante riconoscimento per l’artista, nota per il suo talento nella lavorazione della cartapesta

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Importante riconoscimento per l’artista biancavillese Elena Cantarella, maestra della lavorazione della cartapesta nella bottega catanese “Cartura”, fondata da Alfredo Guglielmino nel 1998.

Al Piccolo Teatro di Catania, Elena Cantarella ha ricevuto il premio storico-artistico della Fondazione Giuseppe Fava di Catania “Giovanna Berenice Mori”. Un premio intitolato alla compianta storica dell’arte e al suo appassionato lavoro di studio e ricerca dell’opera pittorica di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia a Catania nel 1984.

Cantarella ha vinto scrivendo un saggio dal titolo “Giuseppe Fava. Oltre il segno”. «L’arte per Fava – scrive Cantarella – è testimonianza della continuità tra la sua attività di giornalista e quella di artista, non è solo uno sfogo, ma un’ineluttabile esigenza comunicativa, espressione concreta degli aspetti più profondi della sua anima».

«Il mezzo artistico – prosegue Cantarella – realizza la sua necessità di tradurre la realtà attraverso uno strumento che rispetto alla parola possa avere un linguaggio universale, senza abbandonare la sua intimità di significato: nelle immagini, nel colore, nel segno i suoi sentimenti si mescolano con quelli degli uomini e delle donne su cui posa lo sguardo».

Ad assegnarle il premio la commissione composta dal presidente della Fondazione Fava, da un rappresentante della famiglia Fava e da due docenti dell’Accademia di belle arti di Catania.

Una lettura innovativa sull’arte di Fava

Cantarella, secondo la motivazione, ha «presentato in modo puntuale e preciso, asciutto e piano il lavoro artistico di Giuseppe Fava, coniugandolo con le principali intenzioni artistiche, antropologiche e culturali dell’autore». E ha anche intercettato «l’ironica denuncia caricaturale che Fava mette continuamente in atto» attraverso «l’introspezione, il doppio, lo studio sui volti» e promuovendo una lettura innovativa e un «valido approfondimento dell’opera faviana».

All’intermezzo musicale curato da un quartetto d’archi dell’orchestra “MusicaInsieme” di Librino è seguita la cerimonia di premiazione del concorso giornalistico Giuseppe Fava “Apri la finestra sulla tua città e raccontaci dove vedi la mafia, l’illegalità, le ingiustizie”.  Tra i vincitori di quest’ultimo concorso, una scuola del quartiere Zia Lisa di Catania, che ha realizzato una video-inchiesta molto coraggiosa, e un ragazzo di Giarre.

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