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Disse “no” al fascismo e finì nei lager: Sangiorgio, il sorriso di uomo giusto

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Ho davanti a me una foto di Gerardo Sangiorgio. È seduto, riflette. Alle sue spalle una palma, foglie secche intorno. Lo sguardo in alto. Non so cosa guarda. So solo che il sorriso di uomo giusto dice che la sua anima è limpida. Il giornale sulle gambe accavallate (unico legame col reale), sembra non lo interessi. Egli è felice di essere al mondo, ma sa di non essere del mondo: il riverbero di una coscienza cattolica che si fa incontro disinteressato per l’uomo. In questo atto d’amore e di vita, il timido riflesso di quello – incommensurabile – del Dio presente e diafano, il Vero amore che noi non ambiamo: / troppo è di noi più alto (da Vita, sete di amore).

Sembra impossibile, ma l’atto è proprio il perdono di quell’uomo che gli inflisse la peggiore forma di violenza, quella che ti uccide non il corpo, ma dentro: «l’esproprio completo dell’umana personalità» in seguito alla deportazione nei Lager nazisti: i KZ di Neubranderburg e di Bonn – Duisdorf per il suo rifiuto di adesione alla Repubblica di Salò. Qui gli furono «compagni inseparabili la fame più atroce, il freddo, gli stenti, il lavoro forzato, le percosse», come si legge nelle sue Memorie di prigionia. Sono pagine vibranti di umanità e tragedia, di una sensibilità che non di rado si fa poesia. Testimonianze ricche di buio e di luce: buio di disperazione (incapacità di vedere una possibile via di salvezza), sempre alto in dignità; luce, nella pietà di alcuni prigionieri russi, che «spesso ci donavano il contenuto – bollito… di rape – delle loro gavette». Qui la provata speranza di ricongiungersi alla famiglia e la fede, unica áncora di salvezza nel mare della disperazione.

In questa luce abita il senso della sua vita e la forza di renderlo, per sempre, «una sorgente di speranza per tutte le vittime ovunque siano» (Elie Wiesel, in Antologia della memoria per Gerardo Sangiorgio).  Non a caso alcune lettere indirizzate ai familiari (forse mai giunte a destinazione) mostrano parole piene di speranza e di sollecitudine, a lungo e dolorosamente temprate. Carattere, questo, che ne contraddistinguerà l’opera di amato docente e tutti gli scritti, dalla poesia alla narrativa, dagli studi di letteratura e storia locale alle Memorie.

Torno con lo sguardo per un attimo su quella foto. Rivedo il tappeto di foglie morte ai piedi di Gerardo. Mi sembra che da esse tragga vita la mitezza dello sguardo, come avviene che dalla morte del seme nasca vita nuova. Mi chiedo se quella bontà, già presente in lui nell’innato suo essere, non sia reazione alla convivenza inumana con la morte dei Lager, che qui leggo nella secchezza delle foglie. Non so rispondere. So di certo che da questa tragedia nasce, scrive Salvatore Silvano Nigro nell’Introduzione a Quando l’algente verno… e con lui alcuni tra i più rappresentativi intellettuali, la «volontà di testimonianza civile» delle Memorie, su cui l’odierna ricorrenza invita a riflettere: severo ammonimento di amor di patria e in opposizione a ogni violazione della dignità in anni terribili di barbarie e nei nostri, che talvolta a quelli nulla hanno da invidiare.

Ma c’è di più. Per Gerardo Sangiorgio, continua Nigro, «il fascismo e la guerra partigiana non sono semplici fatti storici. Sono nodi morali che, anziché ulteriormente aggropparsi, si sciolgono in desiderio di convivenza. In senso religioso della vita, come perenne interrogazione dell’errore». Come a dire che il nostro imparò «nel e dal soffrire» (Massimo Cacciari) quanto sia stupido l’odio, disumanante il male, quanto – invece – nobilitante l’amore: disposto sempre a incontrare l’altro, anche con la forza del perdono in nome della comune partecipazione alle stesse debolezze.

Nelle Memorie non una sola volta il poeta usa parole di rancore per la violenza inflittagli, facendo così risuonare più severa la condanna della barbarie dei carnefici. Solo l’amore è capace di edificare su solide basi la convivenza, quelle dell’intimo, dell’accoglienza incondizionata dell’altro, al di là di barriere di razza, cultura o di stupidi pregiudizi, e in nome della Vita, nel cui rispetto si sintetizzano tutti i valori autentici. Se poi questo amore si nutre, come in lui, finissimo intellettuale di formazione cristiana (Antonio Tabucchi), di quello inarrivabile a impronta di Dio, allora l’inquieta ricerca si fa senso e ragione civile.

È qui l’altezza dell’insegnamento di Gerardo Sangiorgio, che consente «di credere ancora, nonostante tutto, nell’umanità» (Claudio Magris), e il significato della Giornata della Memoria, senza il quale si preparerebbe, come ha sostenuto Vincenzo Lavenia, «il terreno di coltura delle tragedie prossime venture».

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Cultura

1° Maggio a Biancavilla, l’occupazione delle terre e quelle lotte per i diritti

Il ruolo della Sinistra e del sindacato: memorie storiche da custodire con grandissima cura

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Anche Biancavilla vanta una ricca memoria storica sul 1 maggio. Nel nostro comprensorio non sono mancate, nel secolo scorso, iniziative e manifestazioni di lotta per i diritti dei lavoratori.

Spiccano su tutte l’occupazione delle terre e la riforma agraria di cui ci parla Carmelo Bonanno nel recente libro “Biancavilla e Adrano agli albori della democrazia. La ricostruzione dei partiti, le prime elezioni e i protagonisti politici dopo la caduta del fascismo”.

Il volume, edito da Nero su Bianco, raccoglie le testimonianze di alcuni dei protagonisti della vita politica e sindacale locale del Novecento, evidenziando le numerose iniziative volte a spazzare via i residui del sistema feudale di organizzazione delle terre e ad ottenere la loro redistribuzione.

Il mezzo principale per raggiungere tale obiettivo fu l’occupazione delle terre ad opera di un folto gruppo di contadini e braccianti. Tra questi, Giovanbattista e Giosuè Zappalà, Nino Salomone, Placido Gioco, Antonino Ferro, Alfio Grasso, Vincenzo Russo. A spalleggiarli anche diversi operai. Tra loro, Carmelo Barbagallo, Vincenzo Aiello, Domenico Torrisi, Salvatore Russo. Ma anche intellettuali come Francesco Portale, Nello Iannaci e Salvatore Nicotra.

Così, ad essere presi di mira furono anzitutto i terreni del Cavaliere Cultraro in contrada Pietralunga, nel 1948. Più di 400 persone li occuparono per cinque giorni e desistettero soltanto per l’arrivo della polizia, che sgomberò le proprietà.

A questa occupazione ne seguirono altre, tutte sostenute dai partiti della Sinistra dell’epoca (Pci e Psi in testa) e dalla Camera del Lavoro, e col supporto delle cooperative agricole di sinistra.

Le parole del “compagno” Zappalà

Significativa la testimonianza, riportata nel libro di Bonanno, del “compagno” Giosuè Zappalà: «Gli insediamenti furono vissuti con grande entusiasmo e costituirono per noi protagonisti dei veri e propri giorni di festa in cui potevamo manifestare la libertà che per tanti anni ci era stata negata. Le terre, i cui proprietari erano ricchi borghesi e aristocratici, spesso si trovavano in condizioni precarie, erano difficilmente produttive e necessitavano di grandi lavori di aratura, semina e manutenzione. Noi braccianti, perciò, con grande impegno e dedizione, spinti, oltre che dalla passione per il nostro lavoro, anche e soprattutto dalle condizioni di vita misere di quei tempi, ci occupammo, fin quando ci fu concesso, dell’opera di bonifica. Erano terre che di fatto costituivano per moltissimi l’unica fonte di reddito disponibile».

Tali iniziative, innestatesi nel corso del processo di riforma agraria che portò al superamento del sistema di governo delle terre sino ad allora vigente, condussero però a risultati contraddittori, poiché alcuni contadini ottennero terre produttive mentre altri terre scadenti. Ciò acuì il clima di invidia e inimicizia tra i protagonisti di quelle lotte e condusse alla rottura definitiva della coesione e della solidarietà della categoria.

Ciò non toglie che queste iniziative e manifestazioni segnarono un passaggio molto importante nella storia politica, socio-economica e sindacale locale e posero le basi per la “conquista” del palazzo municipale nel 1956 con l’elezione di Peppino Pace, primo sindaco comunista di Biancavilla.

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