Cultura
Uomo giusto, autentico letterato: Sangiorgio a 26 anni dalla morte

Ventisei anni fa, il 4 marzo 1993, Biancavilla perdeva uno dei cittadini più illustri: il poeta e letterato Gerardo Sangiorgio, la cui memoria è ancora viva in quanti hanno goduto del privilegio di averlo come docente e di condividerne l’amabile conversazione sull’esistenza e sulle cose del cuore. Dolce dialogo di cuori con chi ha amato il suo paese, alla cui storia ha dedicato tanti scritti.
La sua vita fu indelebilmente segnata dalla disumana e disumanante prigionia nei Lager nazisti, patita, racconta nelle Memorie di prigionia, per essersi risolutamente rifiutato di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, per quei tempi infausti macchia di tradimento, per i nostri atto eroico di chi non voleva con il suo sì farsi complice della barbarie nazifascista, atto che fa urlare un grazie dal profondo dell’anima, perché ha assicurato a noi delle future generazioni democrazia e libertà.
Su tale tragica esperienza tanto hanno scritto prestigiosi intellettuali, da Mineo a Cacciari, da Magris a Scalfari (si veda l’Antologia della Memoria per Gerardo Sangiorgio, Biancavilla 2011), e tanto si è detto in numerose iniziative promosse dal Comune nel Giorno della Memoria.
Oggi vorrei ricordare Gerardo per quello che egli essenzialmente è: un poeta, e uno dei più significativi della seconda metà del Novecento, come giustamente sottolineò Mineo nella brillante relazione tenuta nel giorno dell’intitolazione al suo nome della Biblioteca Comunale.
Gerardo ci ha lasciato quattro sillogi: La pietra polita del mare (1971), insignita del prestigioso premio “Stella d’Italia”, Cuore che narra (1975), Cielo e innocenza (1980), Dal cielo meco tu torni a piangere. Poesie religiose (1991).
La prima inizia all’insegna della luce, quella di Dio. Dio, mio tutto! è il titolo della lirica di apertura. A Dio Gerardo, uomo di profonda fede, affida tutto se stesso perché in Lui trova la luce capace di illuminargli il cammino terreno di conforto e speranza per vincere e dare senso al dolore, persino a quello, assurdo, dei giorni bui del Lager. Per il poeta Dio è Amore, a cui l’uomo è chiamato a dare una dimensione terrena al di là della propria debolezza per nutrire e sostanziare di dignità la relazione con l’altro, di senso la vita. Compito impossibile, certamente, ma necessario per nobilitare l’amore per una donna, per Maria, che sarà sua compagna di vita; un amore capace di aprirsi all’altro disinteressatamente, accogliendolo anche per le sue debolezze perché nobile e puro, di nutrirsi di teneri sguardi e di piccole cose, tanto più straordinarie quanto più ordinarie, e di essere riparo contro la precarietà e l’assurdo della vita. Un amore così ha il sapore dell’eterno, è destinato a resistere al tempo, anche se esso, un giorno, separerà gli amanti, perché l’amore vero rimarrà per sempre vivo nel cuore e nella memoria, che sa immortalare fatti, persone, gioie, dolori. La silloge è, in definitiva, un inno d’amore alla vita, un invito ad amare la vita, anche se la vita lo spogliò di dignità nel calvario del Lager.
L’amore è al centro anche di Cuore che narra, silloge dedicata a Maria, dove esso si fa esperienza totalizzante. Gerardo non ha bisogno d’altro per essere felice e per resistere alla precarietà della vita (Greggi sbrancati nel cielo). Anche in questa raccolta l’amore è il filo prezioso che tesse le relazioni umane, ma si apre ad una dimensione cosmica, che identifica l’estate con la felicità dell’amore, l’inverno con la tristezza dell’assenza, e si nutre di una maggiore insistenza – ed è qui un elemento nuovo – sull’unicità del singolo, tassello senza copia (Uomo), tanto sfregiata dalla disumanità del Lager.
Un tono diverso, soffuso di tristezza per il peso degli anni e del tempo, domina in Cielo e innocenza. Ormai per il poeta la vita è solo l’uggiosa faccia del quotidiano (Viale del tramonto), dove non sa scorgere che baluginio tra nebbia (Cielo e innocenza, lirica dedicata alla figlia Rita, che dà il titolo alla raccolta). Ma la tristezza non è l’ultima risposta della vita. Contro di essa si erge prepotente ancora l’amore: quello per la madre, reso vivo nella forza del ricordo, qui più presente rispetto alle sillogi precedenti, ma soprattutto quello per Maria, che conserva gli stessi intensi accenti, specialmente quando è rivissuto nel sogno della passione di un tempo, facendogli ringiovanire il cuore, perché esso per Gerardo significa amore per la vita, pace e conforto. È tale intensità di amore che gli mette nel cuore il desiderio di vivere intensamente gli ultimi anni, animandolo, come nel Lager, di speranza, simboleggiata dalla ginestra, che rifiorisce ad ogni assalto della lava (Il castagno, l’uomo, la lava), e dal Simeto, che dalle viscere della terra risorge per beverare arso di morte zolle sgretolarsi (Su pendici dell’Etna al tramonto). Speranza che si fa forte del bisogno di sognare da svegli e di guardare alla vita con l’incanto dello sguardo di bimbo, con cui il poeta tutto si protende a scrutare il breve tratto di strada rimastogli (Vita ed eternità), a trasfigurare in bellezza il creato e ad animare di alti sentimenti luoghi a lui cari, del tutto assenti nelle sillogi precedenti, segno che anche in età avanzata la vita ha ancora molto da dire, da svelare: Napoli trasuda di libertà, specie contro la belva teutonica, / uncinata l’artiglio al par di suo nefasto stimma (Napoli, sola sai vivere!), Taormina di bellezza e di memoria, Stazzo con la varietà dei suoi colori richiama quella della natura umana, il Belvedere, cui è dedicata l’unica lirica in dialetto, C’era ‘na vota a Biancavilla “u Tunnu”, chiddu beddu e assai frichintatu, è una finestra spalancata sull’infinito.
L’ultima silloge celebra interamente l’Amore di Dio, che assorbe in sé tutti i motivi ispiratori dei versi precedenti. Esso offre un’ancora di salvezza e di certezza nella precarietà della vita e annulla la paura della morte, che è rinascita alla vita vera, quella del Paradiso, pregustabile già in quella terrena nella bellezza del creato e nell’esperienza del dolore, esperienza salvifica perché fa rivivere le sofferenze del Calvario e trasforma la vita in dono di sé all’altro sull’esempio di Cristo. La vita diventa così, nell’ultimo Sangiorgio, dolorosa, ma salutare preparazione alla morte sulla via crucis, negli anni della gioventù già sentita nelle ferite sulla propria carne nei giorni del Lager. Essa non a caso chiude l’ultima lirica, Convento “S. Francesco” dei frati minori a Biancavilla, col canto della nostra contrizione intonato dal frate: “…Quia per sanctam Crucem tuam / redemisti mundum”. Canto di congedo dalla vita sotto il segno della croce, simbolo dell’Amore di Dio, che alimentò tutta la vita di Gerardo, aprendo la prima esperienza poetica e chiudendone l’ultimo sussulto, non di morte, ma di anelito a vita eterna. Vera vita, vera felicità, nutrimento vero della sua opera e del senso della sua esistenza terrena.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Chiesa
Nella chiesa dell’Annunziata restauri in corso sui preziosi affreschi del ‘700
Interventi sulle opere di Giuseppe Tamo, il parroco Giosuè Messina: «Ripristiniamo l’originaria bellezza»

All’interno della chiesa dell’Annunziata di Biancavilla sono in corso i lavori di restauro del ciclo di affreschi della navata centrale, della cornice e dei pilastri. Ciclo pittorico di Giuseppe Tamo da Brescia, morto il 27 dicembre 1731 e sepolto proprio nell’edificio sacro.
Gli interventi, cominciati a febbraio, dovrebbero concludersi a giugno, ad opera dei maestri Calvagna di San Gregorio di Catania, che ben conoscono hanno operato all’Annunziata per diversi restauri negli ultimi 30 anni.
Il direttore dei lavori è l’arch. Antonio Caruso, il coordinatore per la sicurezza l’ing. Carmelo Caruso. Si procede sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza ai Beni culturali e ambientali di Agrigento.
«Quest’anno la Pasqua è accompagnata da un elemento che è il ponteggio all’interno della chiesa. Il ponteggio – dice il parroco Giosuè Messina – permette il restauro della navata centrale e delle pareti, per consolidare l’aspetto strutturale della volta e ripristinare la bellezza originaria dell’apparato decorativo. Chiaramente questo ha comportato una rivisitazione del luogo, soprattutto con l’adeguamento dello spazio per permettere ai fedeli la partecipazione alla santa messa».
«In questa rivisitazione dei luoghi liturgici, l’Addolorata – prosegue padre Messina – quest’anno non ha fatto ingresso all’interno della chiesa a seguito degli spazi limitati, ma abbiamo preparato l’accoglienza in piazza Annunziata, esponendo anche esternamente la statua dell’Ecce Homo. La comunità, insieme ai piccoli, ha preparato un canto e poi il mio messaggio alla piazza. Un messaggio di speranza: le lacrime di Maria sono lacrime di speranza».
I parrocchiani dell’Annunziata stanno sostenendo le spese del restauro, attraverso piccoli lasciti e piccole offerte, per ridare bellezza a questo luogo di culto, tra i più antichi di Biancavilla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Cultura
Il Venerdì santo del ’68: l’Addolorata in processione nel mondo in rivolta
Uno scatto inedito ritrae i fedeli in via San Placido: la devozione popolare in quell’anno turbolento

L’immagine in bianco e nero, qui sopra a destra, che per la prima volta viene staccata da un album di famiglia e trova collocazione su Biancavilla Oggi, ci restituisce il frammento di una processione della Madonna Addolorata. Il corteo avanza compatto in via San Placido, a pochi passi dall’ingresso del “Cenacolo Cristo Re”. Sullo sfondo, il monastero “Santa Chiara”, dalla cui chiesa il simulacro è appena uscito. Donne eleganti nei loro tailleur, borsette al braccio, volti composti, sorrisi accennati. Uomini in abito scuro, qualcuno in cravatta, qualche altro con la coppola.
Non è un anno qualsiasi: è il Sessantotto. È il 12 aprile 1968: quella mattina del Venerdì Santo, a Biancavilla la storia aveva un sottofondo diverso. Lo scatto fotografico dell’affollata processione, che qui pubblichiamo, coglie un istante di vita di provincia, mentre il mondo era in rivolta.
Otto giorni prima, a Memphis, Martin Luther King veniva assassinato. Negli Stati Uniti, le fiamme delle proteste bruciavano il sogno della nonviolenza. In Italia, gli studenti occupavano le università, lanciando un’ondata di contestazione che avrebbe investito scuole, fabbriche e palazzi del potere. La primavera di Praga era nell’aria, prima che le speranze di libertà finissero sotto i carri armati sovietici. A Parigi, il Maggio francese era pronto a farsi sentire in tutto il suo fragore. E in Vietnam, la guerra e il napalm trucidavano vite e coscienze.
Ma a Biancavilla, in quel venerdì di aprile, la processione dell’Addolorata si muoveva lenta e composta, come ogni anno da secoli. La scena è cristallizzata. Nessuna spettacolarizzazione, nessuna teatralità: soltanto un popolo di fedeli che cammina, che prega, che resta unito nel dolore di Maria. Come se quel dolore universale della Madre che ha perso il Figlio, bastasse a rappresentare anche le inquietudini del presente. Come se, nella liturgia popolare, ci fosse spazio per elaborare anche i drammi collettivi del mondo.
È una Biancavilla ancora intima e raccolta. Ma non per questo isolata del tutto. È semmai una Biancavilla che custodisce le sue radici quando tutto corre verso il cambiamento, necessario e inevitabile. In quella processione religiosa, c’è forse un senso di continuità che si oppone all’instabilità: un tentativo di conservare la tradizione nell’impellenza della modernità.
Riguardare oggi questa fotografia, dunque, non è affatto un esercizio di nostalgia. È un atto di lettura storica e culturale, in un accostamento tra quotidianità locale (racchiusa in quell’istantanea di via San Placido) e narrazione globale (come nell’iconica ragazza col pugno chiuso tra le vie parigine). È vedere come una comunità, anche in quell’anno turbolento, sceglieva di riconoscersi nei propri riti. Non per chiudersi al mondo, ma per affrontarlo con una dichiarazione silenziosa di identità: «Noi siamo ancora qui. Insieme. Anche se il mondo cambia. Anche se tutto sembra franare».
Non è distacco o indifferenza. Il vento del Sessantotto, con la sua carica rivoluzionaria e il sovvertimento di canoni sociali e tabù familiari, in qualche modo, arriverà poi (finalmente) pure a Biancavilla, minando le fondamenta del patriarcato, della sudditanza femminile, della cappa clericale e di tutte le altre incrostazioni e arretratezze. Una battaglia di civiltà e progresso ancora aperta, da rendere viva e riadattare anche oggi, in questo Venerdì santo 2025, nel quale movenze e itinerari dell’Addolorata si riproporranno intatti e immutati.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
-
Cronaca3 mesi ago
Così parlò il comandante Lanaia, sul banco degli imputati per minaccia
-
Cronaca2 mesi ago
Per la “fiera della vergogna” giustizia lumaca: in tre condannati a 10 anni
-
Cronaca3 mesi ago
Sequestrati 160 kg di carne, pesce e ortofrutta: batosta per un ristorante
-
News3 mesi ago
Sandro Pappalardo, un biancavillese presidente della compagnia aerea Ita