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Se si “scafazza la cofaccia”… una voce “corrotta”, ma ricca di sviluppi

“Scafazzata”, da Andrea Camilleri fino a Pif: molto istruttiva è la storia di questa parola

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Scagli la prima pietra chi non si è mai sbagliato di grosso, chi non ha mai commesso un errore madornale, chi non ha mai fatto fiasco o, per dirla come si usa a Biancavilla, chi non l’ha mai scafazzata: au, mpari, staòta a scafazzasti fràcita! “ehi, amico, questa volta l’hai fatta/detta grossa!” è un esempio d’uso. E infatti scafazzàlla, con il solo pronome o con l’aggiunta di aggettivi come rossa, fràcita, significa “sbagliare di grosso”.

Ma questo è un uso metaforico del verbo scafazzari che ha, invece, come significato fondamentale, quello di a) “spiaccicare, schiacciare qc. di molle (ad es. un fico o un pomodoro) così da ridurla in poltiglia”.  Molto comune è anche il significato di b) “pestare, schiacciare col piede”; meno diffusi sono quelli di c) “schiacciare con forza, frantumare”; d) “schiacciare, di cosa molto pesante che, cadendo o passando su un corpo, ne provochi lo schiacciamento completo”: ad es., u scafazzàu u ṭṛenu; e) “schiacciare, di persona che con la sua mole grava o preme su qualcuno o qualcosa”.

Le varianti aggiungono qualche accezione in più: a) scavazzari e scravazzari di area sud-orientale vale anche “mandare via con modi bruschi, scacciare”; b) scrafazzàrisi, di area nisseno-agrigentina, “spiaccicarsi, di fichi e sim.”, a Pantelleria.

Dal verbo derivano numerosi aggettivi e nomi, sparsi in Sicilia, che arricchiscono la gamma dei significati:

scafazzatu, scavazzatu “schiacciato”: nasu scafazzatu “naso camuso”.

scafazzu “frutta destinata al macero perché deteriorata o di pessima qualità’.

scafazzuni “lo spiaccicare in una volta e con forza”.

scravazzuni a) “percossa”; b) “ammaccatura”.

L’aggettivo scafazzatu è entrato nell’italiano regionale e alcune pasticcerie offrono adesso il cannolo scafazzato o la scafazzata di ricotta “un dolce a base di crema di ricotta versata sulle scorze di cannolo spezzetate”. Una scafazzata a Palermo è una “brutta figura” e nel linguaggio giovanile “una ragazza brutta”. Gli scafazzati, infine, nel gergo della mafia, sono gli ultimi, i diseredati, quelli che la vita ha schiacciato, ha scafazzato, si direbbe.

Uso letterario, da Camilleri a Pif

Tra dialetto e italiano regionale il nostro verbo può vantare diversi usi letterari.

Cominciamo con Silvana Grasso, che in un testo (Pazza è la luna) usa la variante agrigentina (camilleriana) e in un altro (Il bastardo di Mautana) quella della Sicilia orientale: «si levano i pidocchi dai capelli e li scrafazzano con l’unghia»; «[…] rispose Agatina, scafazzàta anche da quell’emozione».

Fra le tante testimonianze, in Andrea Camilleri si citano: «[…] posò una mano sul matarazzo, ma in realtà scrafazzando la faccia di suo figlio Pasqualino che si lamentò nel sonno» (Il birraio di Preston).

«C’erano pommidori, arance, limuni, racina, cicoria, patate scalora, milinciane, ’nzumma tutto addivintò uno scrafazza scrafazza» (La caccia al tesoro).

Troviamo inoltre Silvana La Spina: «Bella lana sei, Anselmo lu scannavoi, che te ne vai scafazzannu li passanti» (L’amante del paradiso).

Santo Piazzese: «Morì scafazzato sotto un’impastatrice, mentre la scarricavano dal 642» (Il soffio della valanga).

Giuseppina Torregrossa: «Finirò scrafazzata come quei gusci che mi scricchiolavano sotto ai piedi a Santa Rosalia, pensò sconsolata» (Panza e prisenza).

E finiamo, momentaneamente, con PIF, al secolo Pierfrancesco Diliberto: «Per esempio: c’è il cannolo classico, con ricotta e pezzi di cioccolato oppure il cannolo “scafazzato”, vale a dire un cannolo preso a martellate, e con i pezzi della crosta fai la scarpetta dentro un sugo di ricotta» (… che Dio perdona a tutti).

In origine c’è… Vincenzo Monti

Molto istruttiva è la storia di questa parola, alla scoperta della quale è utile partire da una sapida pagina di Vincenzo Monti, tratta dalla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1829), dedicata al lemma focaccia. Dopo averne trascritto la definizione, «Schiacciata, che è un pane schiacciato, e messo a cuocere in forno, o sotto la brace. In alcuni luoghi è detta corrottamente Cofaccia», Monti commenta ironico: «Ringraziamo Dio che questa volta la Crusca condanna sè stessa», ammettendo che «cofaccia è voce corrotta», pur inserendola a lemma nel Vocabolario, aggiungiamo noi. Continua poi dicendo che, cercando nelle pagine precedenti, si troverà cofaccia, «non già su la bocca della Sandra o di Cecco, ma del Sacchetti, del Berni, del Burchiello, del Firenzuola, del Soderini e del Cronicista Morelli e del Biografo di San Giovanni Battista».

Cosa intendevano Monti e i lessicografi della Crusca quando giudicavano «corrotta» una voce come cofaccia? Nel caso specifico cofaccia è parola toscana che risulta dalla metatesi, cioè dal rovesciamento dell’ordine di successione di due fonemi all’interno della parola focaccia (dal lat. tardo FOCACIA da FOCUS), che così diventa cofaccia. Roba da fare storcere il naso e far venire i crampi allo stomaco ai puristi di ogni tempo (leggi: grammar-nazi).

Inutilmente si cercherebbe questa parola nei dizionari odierni, essendo rimasta in uso solo in qualche dialetto toscano. Così come inutilmente si cercherebbe il derivato parasintetico scofacciare «schiacciare come una focaccia», registrato dal Grande dizionario [storico] della lingua italiana (GDLI), vol. XVIII, p. 107, assieme al derivato scofacciato, ma sfrattato, è il caso di dire, dai moderni dizionari d’italiano.

Eppure, prima di sparire definitivamente dai vocabolari, il verbo scofacciare è passato ai dialetti meridionali. Qui si è ben integrato e acclimatato ed è germogliato negli usi comuni e letterari. Scofacciare, infatti, è diventato, prima, scafacciare “schiacciare, e per lo più, coi piedi”, registrato nel Vocabolario napoletano di Ferdinando Galiani (1789). Ma presente anche nell’uso vivo e letterario: «Oppure passavamo la giornata in cantina, a “scafacciare”. Scafacciare è vocabolario dialettale, delle mie parti, ma non potrebbe rendere meglio il rumore continuo e vibrato dell’uva mentre è pigiata» (Michele Prisco, “Punto franco, Racconti”).

Successivamente lo rintracciamo nel laziale scrafacciare “schiacciare come focaccia, pestare, spappolare, acciaccare, ammaccare”. E poi giù giù fino all’irpino scafazzà, al pugliese scrafazzare, scrapazzari, al calabrese scrafazzari e scofazzari (Dizionario etimologico italiano [DEI], vol.  V, p. 3407) e alle forme siciliane che abbiamo visto.

Morte e rinascita di una parola

Riassumendo: focaccia (< lat. tardo focacia(m) < focus), diventato cofaccia, ha dato scofacciare da cui scafacciare che ha portato al nostro scafazzari.

Le parole dunque possono morire se non vengono più usate, come è accaduto a cofaccia e a scofacciare. Possono, però, rinascere e farsi, per così dire, una nuova vita, emigrando altrove, integrandosi e acclimatandosi nel nuovo ambiente, in veste di un prestito linguistico interno, come scafazzari.

Un altro insegnamento che si può trarre dalla storia di questa parola riguarda il tema degli errori. Cofaccia, che deriva per metatesi da focaccia, è un esempio classificabile fra gli «accidenti generali» che possono essere provocati dalla dislessia. Questi possono essere repressi, bollati come errori, oppure diffondersi e determinare, come nel nostro caso, il mutamento linguistico.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Cultura

Premiata la biancavillese Elena Cantarella per un saggio su Pippo Fava

Importante riconoscimento per l’artista, nota per il suo talento nella lavorazione della cartapesta

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Importante riconoscimento per l’artista biancavillese Elena Cantarella, maestra della lavorazione della cartapesta nella bottega catanese “Cartura”, fondata da Alfredo Guglielmino nel 1998.

Al Piccolo Teatro di Catania, Elena Cantarella ha ricevuto il premio storico-artistico della Fondazione Giuseppe Fava di Catania “Giovanna Berenice Mori”. Un premio intitolato alla compianta storica dell’arte e al suo appassionato lavoro di studio e ricerca dell’opera pittorica di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia a Catania nel 1984.

Cantarella ha vinto scrivendo un saggio dal titolo “Giuseppe Fava. Oltre il segno”. «L’arte per Fava – scrive Cantarella – è testimonianza della continuità tra la sua attività di giornalista e quella di artista, non è solo uno sfogo, ma un’ineluttabile esigenza comunicativa, espressione concreta degli aspetti più profondi della sua anima».

«Il mezzo artistico – prosegue Cantarella – realizza la sua necessità di tradurre la realtà attraverso uno strumento che rispetto alla parola possa avere un linguaggio universale, senza abbandonare la sua intimità di significato: nelle immagini, nel colore, nel segno i suoi sentimenti si mescolano con quelli degli uomini e delle donne su cui posa lo sguardo».

Ad assegnarle il premio la commissione composta dal presidente della Fondazione Fava, da un rappresentante della famiglia Fava e da due docenti dell’Accademia di belle arti di Catania.

Una lettura innovativa sull’arte di Fava

Cantarella, secondo la motivazione, ha «presentato in modo puntuale e preciso, asciutto e piano il lavoro artistico di Giuseppe Fava, coniugandolo con le principali intenzioni artistiche, antropologiche e culturali dell’autore». E ha anche intercettato «l’ironica denuncia caricaturale che Fava mette continuamente in atto» attraverso «l’introspezione, il doppio, lo studio sui volti» e promuovendo una lettura innovativa e un «valido approfondimento dell’opera faviana».

All’intermezzo musicale curato da un quartetto d’archi dell’orchestra “MusicaInsieme” di Librino è seguita la cerimonia di premiazione del concorso giornalistico Giuseppe Fava “Apri la finestra sulla tua città e raccontaci dove vedi la mafia, l’illegalità, le ingiustizie”.  Tra i vincitori di quest’ultimo concorso, una scuola del quartiere Zia Lisa di Catania, che ha realizzato una video-inchiesta molto coraggiosa, e un ragazzo di Giarre.

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