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Cultura

Da una varietà d’uva all’espressione “dari a nzòlia”, usata già nel 1700

In una “cicalata” e in un proverbio la chiave per svelare il significato di un modo di dire diffuso

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In una «cicalata» (discorso ameno e bizzarro, in prosa o in versi, che veniva letto dopo i banchetti in alcune accademie letterarie italiane del Seicento e del Settecento) del 1789, dedicata al vino, l’accademico Giuseppe Leonardi, parlando della decadenza dell’impero romano, ne spiega scherzosamente le cause in questi versi:

E la sorti di Roma, ancorchì varia,

Pirchì cangiau? La causa pirchì fù,

Ca li Romani nun cuntanu chiù?

Pirchì poi ca sfugaru tutta l’ira

Contra Cartagu, e a li Cartaginisi

La ’nzolia cci dettiru, e li pira;

All’oziu dati li facci di ’mpisi

Dissiru all’armi: Amici, bonasira;

E poi putruni a la crapula misi

Vivennu sempri Vinu li ’mbriachi,

Addivintaru tutti Cacanachi.

Il motivo della decadenza sarebbe dunque perché i Romani, dopo aver distrutto Cartagine e averle suonate ai Cartaginesi, si sono dati all’ozio e ai bagordi (putruni a la crapula misi), al vino e sono diventati tutti rammolliti (cacanachi). Per dire che le hanno suonate ai Cartaginesi, che gliele hanno date di santa ragione, viene usata l’espressione la ’nzolia cci dettiru, e li pira.

Specialmente la prima parte, la ’nzolia cci dettiru, corrisponde al modo di dire, usato anche a Biancavilla, dari a nzòlia “picchiare qualcuno”. Capitava in passato che una madre minacciasse il figlio che era uscito di casa senza permesso imprecando in questo modo: auora cci a fazzu avvìdiri iù! Quannu tonna cci dugnu a nzòlia, cioè una “fraccata di legnate”. Quanto all’espressione sinonimica dari li pira, sembra che sia sconosciuta a Biancavilla (saremmo lieti di essere smentiti), ma essa è documentata almeno dal XVII sec. e usata tuttora nel Trapanese e in provincia di Enna.

Tornando alla nostra espressione, dari a nzòlia, che corrisponde all’italiano dare le nespole, è documentata dal XVIII sec. e tuttora usata, oltre che a Biancavilla, in area catanese orientale, a Centuripe (EN) e a Giardini, nel Messinese.

In origine fu un vitigno

Credo che sono pochi i lettori e le lettrici di questa rubrica che non sanno cos’è la nzòlia. Per questi pochi diciamo che si tratta di un vitigno e di una varietà d’uva dall’acino ovale giallo-dorato e dalla buccia spessa, molto diffusa in Sicilia come uva da tavola ma anche, in qualche località, come uva da vino.

A Biancavilla e in area etnea si conoscono altre varietà di uva bianca, chiamate nzòlia capitana, nzòlia i Palermu e nzòlia mpiriali. Uno dei primi botanici a descrivere questa varietà è stato Francesco Cupani (Hortus Catholicus, 1696), che distingueva la Inzolia vranca, la Inzolia impiriali o di Napuli (con acini più grossi, di colore giallastro e dal sapore più gustoso) e la Inzolia nigra (con acini neri).

L’importanza assegnata a questa varietà di uva che conferiva prestigio a chi la coltivava è data anche da altri usi metaforici del suo nome. Così, di “due persone inseparabili, di due amici intimi” un tempo si diceva che erano nzòlia e-mmuscateḍḍu. Nel Ragusano la stessa espressione è riferita alla comunanza di beni (che è spesso causa di litigi). Nel Trapanese l’espressione nzòlia e-mmatòlia significa “confusione, parapiglia”.

Altre espressioni idiomatiche usate localmente in Sicilia erano livari di nzòlia “distogliere; sconsigliare”, aviri l’anni di la nzòlia detto in riferimento a un’abitudine molto antica o a una persona molto vecchia. Di una persona che aveva desideri stravaganti si diceva pititti di donna Ggiùlia, / avi muscateḍḍa e-vvoli nzòlia.

Nzòlia… al primo colpo

Un proverbio della Sicilia occidentale recita, inoltre, a-pprima viti, nzòlia! che si dice quando si riesce a primo colpo in qualcosa, quasi inaspettatamente, oppure quando una donna resta incinta la prima notte di matrimonio o, infine, ironicamente, quando tutto va a monte prima ancora che vi si metta mano.

L’ultimo significato del proverbio ci aiuta a comprendere l’origine dell’espressione da cui siamo partiti. Poiché questa varietà di uva era considerata molto dolce e pregiata, dire in modo ironico e antifrastico dari a nzòlia a qualcuno equivaleva dunque a “dare l’amaro al posto del dolce”, “dargli botte, dargli un fracco di legnate invece che carezze”.

Il nome di questa varietà di uva è registrato nei vocabolari d’italiano nella forma insolia o inzolia; nel vocabolario della Crusca troviamo la variante ansoria. Quanto all’origine, gli studiosi non hanno raggiunto sinora un accordo, in quanto le proposte sono diverse. Per quanto ci riguarda, citiamo quella di Leonardi, l’autore della «cicalata» sul vino, che così scrive: «’Nzolia è sorta d’uva, ch’è solito farsi impassire al sole, quasi uva in solata, voce lat. barb. da in, e sole, asseccare al sole, soleggiare […] Dari la nzolia corrisponde all’ital.  dar le nespole in senso di battere».

Migliore di questa, soprattutto perché risolve alcuni problemi fonetici, è quella che propone una derivazione dal francese ensoleillé “soleggiato’ con riferimento a una nota tecnica della vinificazione che consiste nel soleggiare l’uva prima di estrarre il mosto”.

Chi fosse comunque interessato ad approfondire l’argomento può consultare l’articolo Ampelonimi popolari siciliani: etnici, toponimi e antroponimi in tre antichi cataloghi, scritto da Marina Castiglione, dell’Università di Palermo.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Zora, Scenzio, Ponzio, Lionella…: i nomi diffusi a Biancavilla ad inizio del 1600

Ricerca onomastica sugli antichi registri dei matrimoni, con una sorpresa: non ci sono “Elemosina”

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Come ci informa Enzo Caffarelli, uno dei maggiori esperti italiani di onomastica, «negli anni Ottanta del secolo scorso due francesi, Philippe Besnard e Guy Desplanques, hanno inventato un dizionario onomastico molto particolare, che documentava la posizione di un nome in una parabola ideale» in cui  «ogni nome, quale più e quale meno, attraversa nella sua “carriera sociale” una fase ascendente cui fa seguito, dopo aver raggiunto il vertice, una fase discendente fino all’obsolescenza pressoché totale, per poi ricominciare, a distanza di 100-130 anni il medesimo percorso».

Se questo è vero, potendosi documentare per alcuni nomi propri che attraversano questa parabola ideale (per esempio Emma, Costanza, Matilde ecc.), è altrettanto dimostrabile che certi nomi propri, adottati sulla base delle mode onomastiche presenti in ogni tempo, hanno una loro vita e un loro prestigio che dura un tempo più o meno lungo, ma, come accade anche al lessico comune, diventano prima obsoleti, poi scompaiono per sempre, in quanto cambiano le mode, le ideologie, i rapporti sociali all’interno dei quali si impongono i nomi propri.

I file del Comune e le carte della Chiesa Madre

In un articolo su Biancavilla Oggi (4 ottobre 2020), l’autore, attraverso la consultazione dei file dell’anagrafe del Comune di Biancavilla, constata che nessuno, a partire dal 1994, chiama la propria figlia Elemosina e quindi tale nome devozionale è destinato all’estinzione. Elemosina rappresenta forse per Biancavilla il caso più emblematico, «a dispetto della devozione che manifesta la comunità cattolica locale verso quell’immagine sacra di Madre dal volto tenero ed affettuoso, con in braccio il Bambino». Esistono tuttavia diversi casi di nomi un tempo usati a Biancavilla e oggi dimenticati, se non proprio ignorati.

Pur non disponendo di una vera e propria banca-dati dei nomi di persona usati in passato a Biancavilla, può risultare utile la consultazione dei registri dei matrimoni della Chiesa Madre, in particolare quello più antico che registra i matrimoni celebrati a Biancavilla dal 1599 al 1637.

L’assenza del nome “Elemosina”

Va osservato preliminarmente che, se risulta normale l’assenza del nome Placido, in quanto il culto per il santo martire è iniziato a Biancavilla nei primi del Settecento, meno ovvia è l’assenza del nome Elemosina, dal momento che il culto della Madonna dell’Elemosina affonderebbe «le sue radici nella fondazione stessa della città».

In realtà, dal registro dei matrimoni sembrerebbe che tale culto sia stato incrementato e favorito dopo il 1630. Solo a partire dal 1631, infatti, i cappellani che registrano i matrimoni, aggiungono che la Chiesa Madre (Matricis ecclesia) è «sub titulo Divae Mariae Elemosinae».

La diffusione di nomi balcanici

Nei primi anni del ’600 erano ancora vivi alcuni nomi di origine balcanica, portati dai fondatori albanesi. Si tratta spesso di nomi che, pur presenti ancora oggi, tradiscono nella loro forma un’origine straniera. È il caso, per esempio, di Alessi, usato attualmente come cognome e presente come nome proprio nella forma Alessio.

Un altro nome di origine balcanica era Dimitri, che troviamo associato a un cognome, Burreci, di sicura origine albanese. La forma moderna di questo nome è ovviamente Demetrio che, tuttavia, non ha un rapporto diretto col precedente. Troviamo ancora un Todaro (Burreci), che a distanza di secoli riappare come cognome, Todaro, come soprannome, Tòtaru, ma come nome proprio Teodoro.

Se, come ci informa l’articolo di Biancavilla Oggi, «gli elenchi dell’anagrafe di Biancavilla riportano solo un cittadino col nome del “protopatrono”», cioè Zenone, il registro dei matrimoni testimonia un Zenonio.

Anche il nome femminile Catrini, insieme al suffissato, Catrinella, tradisce la propria origine greco-albanese, rispetto a quello usato attualmente, Caterina. Il nome Agata, di tradizione latina, aveva già soppiantato, agli inizi del Seicento l’unica variante di tradizione bizantina che ci conserva il registro dei matrimoni, Agathi, cristallizzatasi nei cognomi D’Agati e Santagati. Senza potere escludere che altri nomi siano stati latinizzati, l’ultimo nome di sicura origine balcanica è Zora, ancora usato in area slava, ma del tutto assente ora a Biancavilla.

Quei nomi allora “di moda” ormai estinti

Oltre a questi nomi legati in qualche modo ai fondatori albanesi di Biancavilla, il registro testimonia la presenza di altri nomi che adesso sembrerebbero estinti o con una bassissima frequenza. Lasciando volentieri il compito a chi vorrà consultare gli elenchi anagrafici del comune, vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori alcuni nomi propri usati a Biancavilla nei primi decenni del Seicento e ora molto probabilmente abbandonati del tutto.

Fra i nomi maschili saltano all’occhio: Manfrè, modernamente Manfredi, conservatosi come cognome; Gilormo, modernamente Girolamo, assieme al più diffuso, Geronimo; Cusimano e/o Cuximano, forse per devozione a San Cusimano, presente ora in Sicilia come cognome, Cusimano, Cusumano; di Cruciano sono adesso registrati meno di 5 casi in Italia, secondo l’ISTAT, mentre nessun bambino è registrato adesso coi nomi di Scenzio, Ponzio, presenti invece nel nostro registro assieme a Ortensio, di uso rarissimo in Italia.

Fra i nomi femminili piace ricordare, oltre a Cruciana, Ponzia e Scienzia, alcuni che erano alla moda in quel periodo, anche se di tipo non devozionale, come Angirella (usato nelle famiglie Patania, Fallica e Florenza), Lionella, Paurella, Supranella,Volanti (Violante?), Gratiusa (Graziusa). Il fascino che ha sempre suscitato la città di Venezia ha travalicato i confini al punto da essere usato come nome proprio per le donne: il registro ci conserva Venezia e la var. grafica Venecia. Ma anche il nome della nostra regione era considerato così prestigioso da indurre la famiglia Petrana a chiamare Sicilia la propria figlia.

Il caso di “Bitturda”

Se questi nomi propri si sono obliterati in quanto soppiantati dalle nuove mode, qualche altro non è attecchito perché, già allora, ritenuto poco prestigioso. Il registro ci conserva, per esempio, una Bitturda (= Bertolda) trasferitasi a Biancavilla da Tripi, nel Messinese.

Certo, non possiamo prevedere il quando, ma come si ricava dalla storia dei lunghi periodi, un nome considerato “brutto” e abbandonato, perché associato a certi ambienti socio-culturali, può essere rivalutato in un altro periodo in cui, secondo la moda del momento, sembrerà essere dotato di prestigio, perché, per esempio, la bisavola, donna bella e affascinante, portava quel nome, o magari perché il personaggio di un romanzo o di un film lo ha reso celebre.

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