Cultura
Una bambina negli occhi: ecco perché la pupilla la chiamiamo “vavaredda”
Un termine, diffuso in Sicilia con diverse varianti , che sul piano formale deriva da “vava”
Nell’ottavo libro dell’Iliade, Ettore, avendo visto che Diomede, convinto da Nestore, si era dato alla fuga, gli rinfaccia che per quel gesto i Greci lo disprezzeranno perché ai loro occhi si sarebbe comportato da donnicciola, e rincara la dose, apostrofandolo (v. 164) κακὴ γλήνη “vile pupazzo” o, nella traduzione di Paduano, “bambola sciocca”. La parola γλήνη (glēnē) significa, in primo luogo, “occhio” e “pupilla dell’occhio”, secondo un processo metaforico inverso rispetto all’altro nome greco della “pupilla”, cioè κόρη (kórē), che dal significato di “ragazza, fanciulla”, passa a quello di “pupilla”, come nel verso euripideo (Oreste, 389) in cui Menelao si rivolge a Oreste: δεινὸν δὲ λεύσσεις ὀμμάτων, ξηραῖς κόραις (deinòn dè leússeis ommátōn, xēraîs kórais) “terribile è il tuo sguardo, aride hai le pupille” (κόραις). Dal greco kórē è stato tratto il confisso moderno (o prefissoide) core-, usato per formare parole composte della terminologia medica, come corectopia “anormale posizione eccentrica del foro pupillare” o corelisi “distacco chirurgico delle aderenze patologiche tra iride e cristallino”. In alcuni termini assume la forma coreo-, ad esempio coreoplastica “ricostruzione chirurgica della pupilla”.
Anche nel latino classico il processo metaforico va da “bambina”, “bambola” a “pupilla”. In latino, infatti, la “pupilla” veniva chiamata pupŭla oppure pupilla, alla lettera “bambina, fanciulla”, entrambi diminutivi di pupa “bambina”, “giovinetta” e “bambola”.
Se l’italiano non conosce altro nome che pupilla per indicare “l’orifizio circolare situato al centro dell’iride”, i dialetti italiani offrono, invece, decine di tipi lessicali. Rinviando, per chi volesse approfondire, agli studi di Carlo Tagliavini (Di alcune denominazioni della “pupilla”) e di Rita Caprini e Rosa Ronzitti (Studio iconomastico dei nomi della “pupilla” nelle lingue indoeuropee e nei dialetti romanzi), mi limiterò a indicare alcuni nomi siciliani, partendo da quello conosciuto a Biancavilla, vavareḍḍa.
Si tratta del nome più diffuso in Sicilia con diverse varianti (varvareḍḍa, vavaièḍḍa, caraveḍḍa, il maschile vavareḍḍu ecc.): sul piano formale è un derivato di vava, col significato di “bambina” e poi di “pupilla”, di origine affettiva (fonosimbolica). Da vava derivano anche vaveḍḍa e vavina, sempre “pupilla”. Come termine di paragone troviamo questo nome nel modo di dire vuliri bbeni quantu a vavareḍḍê l’occhji “volere bene come la cosa più preziosa” oppure vuliri cchjù beni dâ vavareḍḍê l’occhji.
La motivazione che si dà per spiegare questi nomi è «per la piccola immagine che vi si vede riflessa». Come scrive, infatti, Innocenzio Fulci (Lezioni filologiche della lingua siciliana, 1855): «la vava = un bambino simile, originata da va pianto bambinesco, donde vagire, e poscia si adattò alla bambola e vavaredda = pupilla, perché nel guardare l’interno dell’altrui occhio vi si scorge una effigie». A questa motivazione “razionale” va aggiunto, come dice Caprini, che questi vezzeggiativi sono spesso dati ad animaletti ritenuti portatori di poteri magici, come la coccinella. «Il potere fascinatorio, quindi pericoloso, dello sguardo è cosa notissima: vien dunque da chiedersi se il prevalere di forme morfologicamente femminili per la pupilla non sia da attribuire a una remota motivazione magico-religiosa». Ad avvalorare questa ipotesi contribuiscono due denominazioni della pupilla: la prima è papuzza a Capo d’Orlando, che è anche e soprattutto uno dei nomi della coccinella; l’altra è santuzza, diminutivo di santa a Cerami.
Con la stessa motivazione troviamo altri nomi di origine fonosimbolica, come ninna a Pantelleria, tipo molto diffuso in Puglia, e nannaredda a Castel di Lucio, nel Messinese, simile alla ninnarella di Monte Romano, nel Viterbese.
Oltre ai nomi che designano propriamente la bambina, per indicare la pupilla troviamo il tipo “fidanzatina” nelle varianti zzìtula a Malfa, nelle Eolie, e zzituzza a Frazzanò, ma non manca la signuredda di Galati Mamertino, simile al tipo “signorina”, nel Salernitano.
Quello che ha tutta l’aria di essere un prestito è prunedda, di area messinese ed ennese, ma documentato anche in Calabria. Si tratta, infatti, del tipo galloromanzo prunelle “piccola prugna”. Se è possibile pensare che queste denominazioni alludano al colore scuro della pupilla, è certo invece per quelle di area agrigentina, nìuru e del pantesco nìviru di l’òcciu. Per alludere, infine, al colore scuro e al tempo testo brillante della pupilla, troviamo pirneḍḍa “perla nera”, conservatoci dalla lessicografia e da una raccolta poetica del Seicento, nota come Muse Siciliane:
A la pirnedda mia vògghiu prigari,
Chi quandu dintra li vostri occhi veni,
Segretamenti vi vògghia avisari
Ch”ìu moru…
[lett. “La pupilla mia voglio pregare, / Che quando dentro i vostri occhi viene, / Segretamente vi voglia avvisare / Che io muoio…].
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
Zora, Scenzio, Ponzio, Lionella…: i nomi diffusi a Biancavilla ad inizio del 1600
Ricerca onomastica sugli antichi registri dei matrimoni, con una sorpresa: non ci sono “Elemosina”
Come ci informa Enzo Caffarelli, uno dei maggiori esperti italiani di onomastica, «negli anni Ottanta del secolo scorso due francesi, Philippe Besnard e Guy Desplanques, hanno inventato un dizionario onomastico molto particolare, che documentava la posizione di un nome in una parabola ideale» in cui «ogni nome, quale più e quale meno, attraversa nella sua “carriera sociale” una fase ascendente cui fa seguito, dopo aver raggiunto il vertice, una fase discendente fino all’obsolescenza pressoché totale, per poi ricominciare, a distanza di 100-130 anni il medesimo percorso».
Se questo è vero, potendosi documentare per alcuni nomi propri che attraversano questa parabola ideale (per esempio Emma, Costanza, Matilde ecc.), è altrettanto dimostrabile che certi nomi propri, adottati sulla base delle mode onomastiche presenti in ogni tempo, hanno una loro vita e un loro prestigio che dura un tempo più o meno lungo, ma, come accade anche al lessico comune, diventano prima obsoleti, poi scompaiono per sempre, in quanto cambiano le mode, le ideologie, i rapporti sociali all’interno dei quali si impongono i nomi propri.
I file del Comune e le carte della Chiesa Madre
In un articolo su Biancavilla Oggi (4 ottobre 2020), l’autore, attraverso la consultazione dei file dell’anagrafe del Comune di Biancavilla, constata che nessuno, a partire dal 1994, chiama la propria figlia Elemosina e quindi tale nome devozionale è destinato all’estinzione. Elemosina rappresenta forse per Biancavilla il caso più emblematico, «a dispetto della devozione che manifesta la comunità cattolica locale verso quell’immagine sacra di Madre dal volto tenero ed affettuoso, con in braccio il Bambino». Esistono tuttavia diversi casi di nomi un tempo usati a Biancavilla e oggi dimenticati, se non proprio ignorati.
Pur non disponendo di una vera e propria banca-dati dei nomi di persona usati in passato a Biancavilla, può risultare utile la consultazione dei registri dei matrimoni della Chiesa Madre, in particolare quello più antico che registra i matrimoni celebrati a Biancavilla dal 1599 al 1637.
L’assenza del nome “Elemosina”
Va osservato preliminarmente che, se risulta normale l’assenza del nome Placido, in quanto il culto per il santo martire è iniziato a Biancavilla nei primi del Settecento, meno ovvia è l’assenza del nome Elemosina, dal momento che il culto della Madonna dell’Elemosina affonderebbe «le sue radici nella fondazione stessa della città».
In realtà, dal registro dei matrimoni sembrerebbe che tale culto sia stato incrementato e favorito dopo il 1630. Solo a partire dal 1631, infatti, i cappellani che registrano i matrimoni, aggiungono che la Chiesa Madre (Matricis ecclesia) è «sub titulo Divae Mariae Elemosinae».
La diffusione di nomi balcanici
Nei primi anni del ’600 erano ancora vivi alcuni nomi di origine balcanica, portati dai fondatori albanesi. Si tratta spesso di nomi che, pur presenti ancora oggi, tradiscono nella loro forma un’origine straniera. È il caso, per esempio, di Alessi, usato attualmente come cognome e presente come nome proprio nella forma Alessio.
Un altro nome di origine balcanica era Dimitri, che troviamo associato a un cognome, Burreci, di sicura origine albanese. La forma moderna di questo nome è ovviamente Demetrio che, tuttavia, non ha un rapporto diretto col precedente. Troviamo ancora un Todaro (Burreci), che a distanza di secoli riappare come cognome, Todaro, come soprannome, Tòtaru, ma come nome proprio Teodoro.
Se, come ci informa l’articolo di Biancavilla Oggi, «gli elenchi dell’anagrafe di Biancavilla riportano solo un cittadino col nome del “protopatrono”», cioè Zenone, il registro dei matrimoni testimonia un Zenonio.
Anche il nome femminile Catrini, insieme al suffissato, Catrinella, tradisce la propria origine greco-albanese, rispetto a quello usato attualmente, Caterina. Il nome Agata, di tradizione latina, aveva già soppiantato, agli inizi del Seicento l’unica variante di tradizione bizantina che ci conserva il registro dei matrimoni, Agathi, cristallizzatasi nei cognomi D’Agati e Santagati. Senza potere escludere che altri nomi siano stati latinizzati, l’ultimo nome di sicura origine balcanica è Zora, ancora usato in area slava, ma del tutto assente ora a Biancavilla.
Quei nomi allora “di moda” ormai estinti
Oltre a questi nomi legati in qualche modo ai fondatori albanesi di Biancavilla, il registro testimonia la presenza di altri nomi che adesso sembrerebbero estinti o con una bassissima frequenza. Lasciando volentieri il compito a chi vorrà consultare gli elenchi anagrafici del comune, vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori alcuni nomi propri usati a Biancavilla nei primi decenni del Seicento e ora molto probabilmente abbandonati del tutto.
Fra i nomi maschili saltano all’occhio: Manfrè, modernamente Manfredi, conservatosi come cognome; Gilormo, modernamente Girolamo, assieme al più diffuso, Geronimo; Cusimano e/o Cuximano, forse per devozione a San Cusimano, presente ora in Sicilia come cognome, Cusimano, Cusumano; di Cruciano sono adesso registrati meno di 5 casi in Italia, secondo l’ISTAT, mentre nessun bambino è registrato adesso coi nomi di Scenzio, Ponzio, presenti invece nel nostro registro assieme a Ortensio, di uso rarissimo in Italia.
Fra i nomi femminili piace ricordare, oltre a Cruciana, Ponzia e Scienzia, alcuni che erano alla moda in quel periodo, anche se di tipo non devozionale, come Angirella (usato nelle famiglie Patania, Fallica e Florenza), Lionella, Paurella, Supranella,Volanti (Violante?), Gratiusa (Graziusa). Il fascino che ha sempre suscitato la città di Venezia ha travalicato i confini al punto da essere usato come nome proprio per le donne: il registro ci conserva Venezia e la var. grafica Venecia. Ma anche il nome della nostra regione era considerato così prestigioso da indurre la famiglia Petrana a chiamare Sicilia la propria figlia.
Il caso di “Bitturda”
Se questi nomi propri si sono obliterati in quanto soppiantati dalle nuove mode, qualche altro non è attecchito perché, già allora, ritenuto poco prestigioso. Il registro ci conserva, per esempio, una Bitturda (= Bertolda) trasferitasi a Biancavilla da Tripi, nel Messinese.
Certo, non possiamo prevedere il quando, ma come si ricava dalla storia dei lunghi periodi, un nome considerato “brutto” e abbandonato, perché associato a certi ambienti socio-culturali, può essere rivalutato in un altro periodo in cui, secondo la moda del momento, sembrerà essere dotato di prestigio, perché, per esempio, la bisavola, donna bella e affascinante, portava quel nome, o magari perché il personaggio di un romanzo o di un film lo ha reso celebre.
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