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Salomone avanza ipotesi astratte, ma ha il merito di richiamarci alle origini

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di Alessandro Scaccianoce

“A nostra ‘cona”: è il titolo di una delle tante poesie in dialetto scritte in onore della Madonna dell’Elemosina. Di questo stiamo parlando. Di qualcosa che ci riguarda. Tutti. Una “cosa nostra”. Un merito certo del lavoro di Giosuè Salomone è proprio questo: l’averci richiamato alle nostre origini, a ciò che ci riguarda tutti, proprio mentre le disillusioni del tempo presente ci porterebbero a chiuderci in un individualismo esasperato.

Lo studio, invece, ci impone con cogenza la questione delle nostre origini e della nostra storia civile e religiosa. Non è banale. Non si tratta di questioni superficiali, perché il passato illumina anche il presente. Dire che Biancavilla sia nata da un segno prodigioso di quella Icona recata dagli esuli greco-albanesi, piuttosto che dire che Biancavilla sia nata per i particolari privilegi fiscali concessi dal Conte Moncada, può essere molto diverso. Senza entrare nello specifico delle caratteristiche dello studio di Salomone, per il quale si rinvia ad altre sedi e ad altri interventi, mi limito qui ad alcune semplici considerazioni.

In quella che Salomone liquida come una “leggenda” (il racconto dell’albero di fico, per intenderci), in realtà è racchiuso un mito di fondazione della comunità, che sempre ha letto la sua storia in una prospettiva di fede, riconoscendo negli accadimenti storici il dispiegarsi di un disegno provvidenziale. Tale mito, quindi, non ha una pretesa storica, né può essere smentito dalle ricerche storiche. Siamo dinanzi, infatti, ad un racconto che esprime per immagini una verità fattuale: quelle circostanze favorevoli, che indussero gli esuli a stanziarsi nei “campi belli” (traduzione di “Callicari”), sono stati per i nostri avi i segni certi di un dono della misericordia e della benevolenza di Dio (cosa c’è di più dolce di un fico?).

Chi conosce l’esegesi biblica sa perfettamente di cosa stiamo parlando. Pensiamo, a titolo di esempio, ai racconti della creazione, che hanno un significato “eziologico”, ossia tendono a dire non il “come”, ma la ragione profonda della realtà che vediamo. Questo è il senso del mito, che non può essere sbrigativamente liquidato con il giudizio “vero/falso” della critica storica. Siamo davanti ad una questione cruciale: Chi e cosa muove la storia? Dio, con la sua Provvidenza – spesso imperscrutabile e incomprensibile immediatamente – o gli interessi economici, il denaro? Il saggio di Salomone, mentre tenta di liquidare come “leggenda” (ossia un fatto inventato e privo di fondamento reale) il racconto delle origini di Biancavilla, ci obbliga a prendere posizione di fronte a questo interrogativo: la storia è frutto del cieco caso o è possibile leggere un filo conduttore che lega avvenimenti e circostanze?

Dio, lo sappiamo, non viola la libertà di nessuno. Ciascuno può assumere di fronte ai fatti della vita la posizione che ritiene più opportuna. I miracoli stessi di Gesù non erano l’espediente per convincere i suoi ascoltatori a credere più in fretta, ma erano un dono riconoscibile solo nella fede, presupponevano la fede, non ne erano la causa. Allo stesso modo – mutatis mutandis – possiamo affermare che quei profughi greco-albanesi non si siano fermati a Biancavilla perché lo impose loro la Madonna (violando i loro progetti), ma perché nella fede riconobbero in una serie di circostanze (la terra concessa a condizioni particolarmente vantaggiose, come bene dimostra Salomone) la sua benevolenza materna.

Un altro breve cenno ritengo opportuno fare in merito all’ipotesi (si tratta di mera ipotesi!) di Salomone, secondo cui l’Icona della Madonna dell’Elemosina sarebbe stata dipinta verso la metà del XVI secolo a Biancavilla da uno dei pittori della famiglia dei Niger (di probabile origine biancavillese). Questa ipotesi, oltre a non essere priva di contraddizioni, non tiene conto adeguatamente del significato e del valore dell’Icona nella tradizione religiosa e liturgica bizantina.

Il primo dato incontrovertibile è che la nostra Icona sia nata per un contesto liturgico. Essa doveva far parte di un’Iconostasi piuttosto importante. È assai più ampia, infatti, delle icone che i fedeli custodivano in casa (altro che regalo per un matrimonio!). Essa invece corrisponde pienamente nelle misure alle Icone che trovano posto nell’iconostasi (una parete che divide il presbiterio dal resto dell’aula liturgica) delle chiese bizantine, dove l’icona viene incastonata in una struttura di legno più complessa che racchiude altre icone, tutte disposte secondo un preciso ordine teologico. L’Icona destinata a tale uso, pertanto, non necessitava di rifiniture particolari ai bordi. A tal riguardo, si noti che solo nel corso del XVII sec. venne realizzata la preziosa cornice barocca che tuttora conosciamo, al fine di rendere più agevole il trasporto dell’Icona, senza toccare la tavola (in legno di cedro, non lo dimentichiamo!).

Appare invece assai più ragionevole – come sempre è stato ritenuto – che la comunità in fuga abbia preso con sé, tra i vari cimeli e reliquie, tra le tante icone venerate, quella particolare Icona della Madre di Dio dipinta secondo i canoni della Madre della misericordia e della tenerezza (in greco “Elèusa”, la misericordiosa). Questa Icona venne utilizzata nella nuova iconostasi messa in piedi nella chiesetta di nuova fondazione e davanti alla quale i fedeli bizantini continuavano ad effondere i loro omaggi fisici (baci e inchini) e ad accendere le candele davanti al volto, come sempre avevano fatto. A questo proposito non è difficile immaginare che l’iconostasi della chiesa di Callicari fosse molto semplice o che consistesse, semplicemente, nell’esposizione dell’Icona della Madonna davanti all’altare, all’altezza dei fedeli, sulla balaustra. E’ ragionevole ritenere che non fosse molto ben strutturata ed elaborata.

A sostegno di questa inveterata tradizione, aggiungo la testimonianza personale che mi è stata resa da Mons. Sotìr Ferrara, Vescovo di Piana degli Albanesi, il quale afferma che gli albanesi della Sicilia occidentale hanno sempre riconosciuto nell’Icona di Biancavilla l’opera di provenienza epirota, con l’aggiunta tra il serio e il faceto: “quell’Icona è nostra!”.

E quando la Messa cominciò ad essere celebrata in rito latino? È strano, si dice, che nella visita Pastorale del Vescovo di Catania del 1555 l’Icona non compaia. Ma è altrettanto verosimile che fosse custodita in casa, presso famiglie private, per le più svariate ragioni possibili. Non ultima, quella della sicurezza. O forse si può immaginare un contrasto tra la comunità greca e il prete latino?

Non stupisce neppure il fatto che la chiesa madre nei primi anni sia stata dedicata a Santa Caterina, probabilmente perché richiamava la chiesa della città natale della comunità. Il culto dei martiri Caterina e Zenone, poi, non dice affatto che la Madonna fosse assente dal cuore di quella comunità bizantina, come sa bene chiunque conosce la tradizione dell’oriente cristiano che venera la Theotòkos con il culto di “iperdulia” (superiore a quello dei Santi, ma inferiore a quello per la Trinità). Al contrario, è logico pensare, come abbiamo avuto modo di affermare più volte in questi anni, che la Madonna dell’Elemosina sia stata l’elemento che ha consentito il passaggio graduale, senza traumi, dal rito greco al rito latino, divenendo, nella Biancavilla del ‘600, “Nostra Signora della Limosina”, come dimostra il fiorire di varie riproduzioni popolari. L’“iperdulia” che i padri albanesi avevano praticato verso questa icona secondo le loro modalità tipiche espressive (bacio dell’icona, accensione di lumi, inchini), venne trasmessa anche ai biancavillesi di nuova generazione. Così ciò che era sacro per i primi padri, continuò ad esserlo anche per i nuovi arrivati. In quell’Icona, infatti, continuavano a riconoscersi gli esuli superstiti e ad essa anche i nuovi abitanti attribuivano un ruolo di speciale protezione. Anche gli immigrati di sensibilità latina, quindi, impararono ad amare questa figura tanto sacra e diversa da tutte le solite raffigurazioni della Madre di Dio, riconoscendo in quella “bella terra” che Ella aveva donato ai primi profughi un dono anche per loro, nuovi arrivati, quelli del nuovo esodo originatosi a seguito delle calamità che avevano interessato i paesi vicini.

Se, come ipotizza Salomone, l’opera è stata fatta a Biancavilla da uno dei Niger nella metà del ‘500 – quando a suo dire il rito greco era quasi scomparso – per quale ragione non è stata fatta piuttosto una pala d’altare assai più imponente, con altre figure di santi o angeli, in modo da occupare opportunamente l’altare principale della Chiesa ormai adibita al rito latino e che – sempre secondo Salomone – sarebbe già stata intitolata alla Madonna dell’Elemosina? Risulta difficile credere che uno dei Niger (a nessuno dei quali risulta ascrivibile una sola icona) abbia fatto un dipinto tutto sommato piccolo, un’Icona ad uso liturgico di una comunità bizantina sempre più rarefatta, che non poteva trovare adeguata sistemazione nei tradizionali altari delle chiese di rito latino. Se, come sostiene Salomone, la Chiesa fosse stata intitolata alla Madonna dell’Elemosina prima ancora che l’Icona venisse dipinta, perché fare un’Icona, tipica dell’uso liturgico greco-bizantino, e non piuttosto una statua o una pala d’altare monumentale, magari di ispirazione confroriformistica? Chi ha dimestichezza con la storia religiosa, inoltre, sa bene che non si impianta un culto ex novo senza che vi sia un’immagine, un’iconografia ben chiara o una reliquia di riferimento. Come immaginare l’intitolazione della chiesa alla Madonna dell’Elemosina, senza sapere quali fossero le caratteristiche di questo particolare titolo della Madonna da predicare e da far amare? Se c’era un riferimento alla Chiesa omonima di Catania, perché lo stesso non c’era anche nella rappresentazione della Madonna? Sarebbe un po’ come intitolare una chiesa alla Madonna delle lacrime realizzando una statua della Vergine con caratteristiche del tutto indipendenti e dissimili dalla statuetta venerata a Siracusa.

Per queste ragioni, le ipotesi formulate dal nostro autore rimangono a livello di immaginazione astratta. Anche altre piccole questioni sollevate da Salomone, circa ad esempio copie dell’Icona nella chiesa di Sant’Antonio o presso i locali del Cenacolo “Cristo Re”, possono trovare facile risposta. Basta chiedere!

Infine, realizzare un’Icona non è come dipingere una tela qualunque. Anche questa è un’acquisizione pacifica. Per i bizantini l’Icona è un “quasi-sacramento”, non è un esercizio di bravura artistica. Richiede preghiera e digiuno. Le caratteristiche sono dettate dal prototipo (non esistono copie, ma prototipi), gli spazi per la creatività sono marginali. Perché un prete latino, che secondo il Salomone avrebbe voluto “latinizzare” questa comunità, avrebbe commissionato un’Icona bizantina? L’ipotesi del nostro, tra l’altro, trascura allegramente l’iscrizione delle lettere greche su croce russa che si trovavano (e si trovano, sebbene nascoste) nel retro della nostra Icona. Queste iscrizioni, relative ad una preghiera di benedizione e di esorcismo dei monaci basiliani (le prime lettere sono l’abbreviazione dell’invocazione: “Cristo Vince!”) ci confermano ancora di più l’origine autenticamente bizantina della nostra Madonna, oltre a lasciare immaginare possibili provenienze da ambienti monastici. Per non dire dei tanti e autorevolissimi pareri di Iconografi e Iconologi che negli anni hanno riconosciuto nell’Icona biancavillese un purissimo esemplare della scuola iconografica cretese. Credo che una pista interessante di riflessione potrebbe riguardare l’approfondimento dell’Archimandritato di Messina tra il XV-XVI secolo.

Di questo e di molto altro, parleremo il 29 agosto prossimo in Chiesa Madre, nell’ambito del secondo Simposio di studi promosso dalla Parrocchia matrice e dall’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina”. Vi aspettiamo. La materia è affascinante. E – siamo certi – dal confronto costruttivo non possono che nascere nuovi spunti di riflessione e di reciproco arricchimento. Con tutta la gratitudine mia personale a Salomone per averci dato la possibilità di riprendere in mano le pagine più belle della nostra storia. Le origini.


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Mafia a Biancavilla, quei fallimenti educativi al di là della cronaca

Il processo “Ultimo atto” e gli spunti di riflessione sui “buoni” e i “cattivi” che vivono a fianco

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Una comunità di persone vive anche di queste informazioni, ossia illustrare le attività investigative delle proprie agenzie di controllo. «Blitz “Ultimo atto”, la Procura chiede 125 anni di carcere per 13 imputati», è l’articolo con cui Biancavilla Oggi ci aggiorna sul «rito abbreviato per Pippo Mancari “u pipi” e i suoi picciotti, accusati di mafia, droga ed estorsioni». Normalmente è così: si parla dell’organo che ha indagato, del reato, possibilmente con le ipotesi del guadagno illecito, le attività criminose, i comportamenti, le vittime, spesso senza nome, o soltanto alcune di quelle che in realtà hanno subito. Poi si passa ai criminali, le facce, gli anni di galera previsti, l’attesa del giudizio. Tutto in una sequenza che sembra esaustiva e completa. Poi vedremo le condanne, la sentenza, l’appello, etc.

Questo ci basta? Ci basta questo per sentirci a posto come cittadini? Sembra di assistere ad un canovaccio uguale e distante da noi, anche se stiamo parlando di persone e gente che incontriamo ogni giorno. Mi chiedo: questa operazione di polizia e la sua divulgazione ci bastano per la nostra idea di comunità? Non c’è forse un tratto di vita tra carnefici e vittime che ci potrebbe interessare di più? La frattura al contratto sociale si ricompone da sola? Mi chiedo. Loro sono i cattivi, o quelli che hanno sbagliato – e si vede dalle facce – e noi siamo i buoni? È proprio così?

In realtà nelle strade e nelle piazze siamo lì, insieme, ognuno per la propria vita, ma tutti accanto l’uno all’altro. Questo tipo di notizie, che diventano solo cronaca, non sono fin troppo indifferenti alla vita di chi ha sbagliato e di chi ha subito il torto.

Come possiamo fare per capire ciò che potremmo fare in termini comunitari? Perché si continua a chiedere il pizzo e si continua a spacciare, nonostante le pene previste? Parlo ovviamente in termini generali e non su questo caso specifico.

Io penso che dove si commette un reato di questa portata, qualcosa non ha funzionato anche prima ed anche in tutti noi. In questa comunità di persone c’è stato un fallimento. Reati del genere coinvolgono molte più persone, atteggiamenti, comportamenti, amicizie, conoscenze. Un mare di persone. E molto tempo prima ha lasciato che le cose sfuggissero di mano. Reati del genere parlano di fallimenti educativi in primis, poi di tante altre cose. C’è il momento della condanna, dopo le indagini, ma il momento per comprendere come siamo arrivati, un’altra volta a queste situazioni quando? Quando comprenderemo di quali passaggi è fatto un percorso di comunità in questa direzione?

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