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Se il verde pubblico a Biancavilla si riduce ad una pennellata sull’asfalto

Servono scelte coraggiose e rivoluzionarie: servono alberi, capaci di generare reti e legami

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La recente “messa a nuovo” di Piazza Don Bosco mi spinge a qualche breve ma doverosa considerazione. Lodevole l’impegno di un’amministrazione che cerca di risanare le inadempienze passate (chiamiamole così). Ma non si può non constatare come, ancora una volta, il tema “Verde pubblico” venga scambiato con quello del “Decoro urbano”. O come “verde” per gli amministratori sia solo un colore con cui pitturare l’asfalto.

Imbellettare una città con qualche mano di pennello (per poi ritrarsi in video propagandistici), scacciare i reietti che si rintanano nei luoghi abbandonati (per spostarli da qualche altra parte), fare del lifting alle smagliature urbane. Sono tutte strategie comode, economiche ed elettoralmente vantaggiose. Ma le città strozzate dal cemento o congestionate dal traffico non hanno bisogno di queste cartoline o di questi specchietti per le allodole.

Servono infrastrutture, e nel verde pubblico la prima infrastruttura sono gli alberi: elemento architettonico completo, capace di generare attorno a sé reti e legami in maniera spontanea, emblema nobile del bene pubblico, della condivisione.

Credere nel verde pubblico è un atto rivoluzionario, perché implica un intervento concreto sulla pianta urbana, una diversa gestione dell’acqua (altro grande tema), una retrocessione dell’asfalto e del cemento, una limitazione del potere indisturbato degli automobilisti. Scelte coraggiose, specie se pensiamo a chi ha in mano i business di cemento e acqua, e non sempre a costo zero, ma che sole possono portare a dei risultati concreti.

L’estate è alle porte: chi correrà per primo a cercare riparo nelle fresche ombre del nuovo parco urbano?

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Detto tra blog

Mafia a Biancavilla, quei fallimenti educativi al di là della cronaca

Il processo “Ultimo atto” e gli spunti di riflessione sui “buoni” e i “cattivi” che vivono a fianco

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Una comunità di persone vive anche di queste informazioni, ossia illustrare le attività investigative delle proprie agenzie di controllo. «Blitz “Ultimo atto”, la Procura chiede 125 anni di carcere per 13 imputati», è l’articolo con cui Biancavilla Oggi ci aggiorna sul «rito abbreviato per Pippo Mancari “u pipi” e i suoi picciotti, accusati di mafia, droga ed estorsioni». Normalmente è così: si parla dell’organo che ha indagato, del reato, possibilmente con le ipotesi del guadagno illecito, le attività criminose, i comportamenti, le vittime, spesso senza nome, o soltanto alcune di quelle che in realtà hanno subito. Poi si passa ai criminali, le facce, gli anni di galera previsti, l’attesa del giudizio. Tutto in una sequenza che sembra esaustiva e completa. Poi vedremo le condanne, la sentenza, l’appello, etc.

Questo ci basta? Ci basta questo per sentirci a posto come cittadini? Sembra di assistere ad un canovaccio uguale e distante da noi, anche se stiamo parlando di persone e gente che incontriamo ogni giorno. Mi chiedo: questa operazione di polizia e la sua divulgazione ci bastano per la nostra idea di comunità? Non c’è forse un tratto di vita tra carnefici e vittime che ci potrebbe interessare di più? La frattura al contratto sociale si ricompone da sola? Mi chiedo. Loro sono i cattivi, o quelli che hanno sbagliato – e si vede dalle facce – e noi siamo i buoni? È proprio così?

In realtà nelle strade e nelle piazze siamo lì, insieme, ognuno per la propria vita, ma tutti accanto l’uno all’altro. Questo tipo di notizie, che diventano solo cronaca, non sono fin troppo indifferenti alla vita di chi ha sbagliato e di chi ha subito il torto.

Come possiamo fare per capire ciò che potremmo fare in termini comunitari? Perché si continua a chiedere il pizzo e si continua a spacciare, nonostante le pene previste? Parlo ovviamente in termini generali e non su questo caso specifico.

Io penso che dove si commette un reato di questa portata, qualcosa non ha funzionato anche prima ed anche in tutti noi. In questa comunità di persone c’è stato un fallimento. Reati del genere coinvolgono molte più persone, atteggiamenti, comportamenti, amicizie, conoscenze. Un mare di persone. E molto tempo prima ha lasciato che le cose sfuggissero di mano. Reati del genere parlano di fallimenti educativi in primis, poi di tante altre cose. C’è il momento della condanna, dopo le indagini, ma il momento per comprendere come siamo arrivati, un’altra volta a queste situazioni quando? Quando comprenderemo di quali passaggi è fatto un percorso di comunità in questa direzione?

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