Detto tra blog
Mafia, tra neutralità e negazionismo: biancavillesi del “secondo anello”
I giorni che Biancavilla ha appena trascorso, segnati dall’importante blitz antimafia “Città blindata”, sono giorni che dovremmo segnare sul Calendario. Magari, perché no, farli diventare delle feste laiche importanti tanto quanto San Placido, se non di più. Gli anziani dovrebbero tramandarle ai nipoti, i nipoti ci dovrebbero ricamare sopra storie fantastiche, miti, racconti. La cittadinanza dovrebbe scendere per la strada, condividere la gioia con gli altri per la liberazione avvenuta, in preda quasi ad un’estasi catartica. Inutile dire che non è così.
Se in questa città le cronache nere servono a qualcosa, è ricordarci quale orrenda brutalità si annida tra di noi, come una serpe in seno che si nasconde dietro l’apparente serenità di un piccolo mondo borghese.
Penso però che eventi come questi siano anche delle occasioni sprecate per confrontarci col problema della criminalità e con noi stessi. Provo quindi a lanciare alcune riflessioni sulla società biancavillese, un sistema che in piccolo esemplifica bene quanto accade in ambito più vasto. Provo a descrivere come in questa società si riescano a far convivere strati sociali moralmente diversi senza farli esplodere, compartimentalizzandoli e facendo sì che ciascuno ignori l’altro, pur mantenendo intatte le profonde lacerazioni che li separano.
Alcuni anni fa il noto giornalista biancavillese Alfio Caruso, parafrasando Benedetto Croce, diede alle stampe un testo dal titolo provocatorio “Perché non possiamo non dirci mafiosi”. Una frase tanto azzeccata quanto drammatica, e tanto più drammatica quanto più vera. Prendo le mosse da questo assunto, cercando di capire se questa frase può davvero definirsi vera, e in che misura e perché.
Mi ha sempre incuriosito come la società biancavillese riesca a confrontarsi con un problema così grave come quello della criminalità. A questo proposito, trovo che una metafora calzante, con i dovuti distinguo, possa trovarsi nel tema nostrano della fluoroedenite. Questo è infatti uno di quei temi di cui si può dire, a ragione, che c’è e non c’è. Il tema della criminalità è simile, serpeggia sotterraneo e quasi non visto. Tuttavia pesa ogni giorno sulle nostre vite come una condanna.
Dicevo che mi ha sempre incuriosito come gli eventi drammatici della cronaca nera vengono percepiti da noi, come vengono canalizzati, discussi, sottaciuti, mormorati e, in definitiva, non affrontati. Sappiamo bene perché non è facile affrontare questi temi, e non sto certo a giudicare o biasimare chi non lo fa. Dico soltanto che è interessante capire la psicologia del “non affrontare” e come questo (non) approccio si possa coniugare con la vita di tutti i giorni. E ancora, mi chiedo, è possibile restare neutrali di fronte ad un tema simile?
Nel tentativo di muovermi fra questi interrogativi, ho cercato di immaginare la società partendo dalla criminalità, e l’immagine che ne è venuta fuori è quella di una struttura composita, con un nucleo centrale e degli anelli concentrici.
Nel nucleo centrale troviamo gli “operatori del settore” o mafiosi propriamente detti. È un’umanità dedita prevalentemente all’accumulo di capitali tramite attività illecite ben note.
Poi abbiamo un primo anello esterno, che rappresenta una sorta di campo in cui si “esternalizzano” i capitali del nucleo centrale. In questo anello troviamo tutte quelle attività foraggiate da capitali illeciti, ed inevitabilmente è composta da imprenditori e commercianti. Questi investimenti seguono gli andamenti di mercato: negli anni ‘60 il mattone, adesso, in epoca di consumismo spinto, la compravendita di merci. La ragione di questa esternalizzazione, oltre a quella strettamente economica, è la necessità di “sbiancare” i capitali, ovvero di “riciclarli”, come si usa dire. Questo anello deve infatti mantenersi pulito, la faccia dev’essere socialmente presentabile e, per quanto possibile, legalmente accettabile. In questo cerchio, e questa è la cosa interessante, noi non troviamo mafiosi propriamente detti. Tuttavia, in pratica molta di questa gente può ritenersi a buon diritto mafiosa, perché appartiene a quella logica e da essa ne trae la linfa vitale. E spesso non si tratta di un semplice interscambio, ma di una vera e propria gemmazione.
Esiste quindi un secondo anello, molto più vasto del primo. In questo anello ci siamo noi, ovvero quella società civile che, per semplici ragioni di vita quotidiana, si trova ad utilizzare (ed in certo senso a beneficiare) di certi servizi: andare in un centro commerciale o in un ristorante, tanto per fare degli esempi. Molte delle persone che si trovano in questo secondo anello non sono consapevoli di chi ha fatto un edificio o di chi ha finanziato un’attività, ma molte altre sì.
Immaginiamo ora di venire a sapere che una data attività è coinvolta in certe dinamiche. Come reagiremo? Qui sta il punto cruciale. La reazione che avremo, e i comportamenti che adotteremo di conseguenza, ci identificheranno. La gran parte delle persone, e questo purtroppo è evidenza comune, tenderà ad ignorare quanto appreso, con un meccanismo che gli psicologi chiamano negazione, e che si verifica ogni qualvolta la mente si confronta con qualcosa di inaccettabile. Cosa la produce? Paura? Pigrizia? Convenienza? Apatia politica? Ingenua connivenza? “Banalità del male”? Forse un miscuglio di tutto questo, ma il risultato è sempre lì: la negazione. È così che, in questo secondo anello, vivono indisturbati moltissimi uomini e donne che, alla luce di ciò che apprendono per passaparola o dalle cronache dei giornali, semplicemente si limitano a non far niente, ovvero continuare a far la spesa al solito posto, andare al solito bar, salutare le solite persone, eccetera eccetera.
La negazione porta ad un’apparente pacificazione fra i due strati della società, ma negare la frattura che li separa trasferisce il male dentro di noi, gettandoci nella completa sfiducia sulle nostre potenzialità, su come possiamo davvero incidere sulle cose. Aver rinnegato il conflitto, aver negato ciò che di intollerabile e mostruoso la realtà ci offre ogni giorno, ha come effetto l’amputazione di parte del nostro spirito volitivo, rendendoci ancora più sfiduciati nei confronti di qualsiasi atto politico o di strategia comune.
Ora, se questo secondo anello è composto da gente “civile” che vive onestamente la propria vita, in parte sapendo in parte non sapendo, in definitiva continuando a vivere e – inconsciamente – a foraggiare quelle attività prodotte dal primo anello, mi chiedo: chi rimane fuori da questo schema? Se noi volessimo estrapolare delle persone che non hanno mai avuto niente a che fare con la criminalità, che non hanno mai dato, nemmeno distrattamente, neanche per un caffè, dei soldi ad attività anche lontanamente connesse alla mafia, penso che faticheremmo a trovare qualcuno.
Questo è un primo punto: è difficile vivere in un contesto come il nostro senza fornire, anche in maniera inconsapevole, il nostro obolo alla mafia.
Tuttavia, c’è un secondo punto ugualmente importante: una coscienza alternativa esiste già, sono già nate attività decise ad eludere il sistema mafioso, contrastando il pizzo o puntando su filiere tracciabili e trasparenti. Non è molto, ma è già qualcosa. E far crescere queste attività dipende da noi. Sta a noi trasformare questo piccolo terzo anello composto da una società civile consapevole, in una moltitudine attiva e critica.
La mia idea è quindi che occorre lavorare, già a partire dalla scuole primarie, su quella seconda cerchia, far sapere che il loro comportamento privato può incidere significativamente sugli effetti pubblici, fin dalla scelta del negozio in cui fare la spesa. Acquisire questa convinzione è un’arma potentissima, perché un singolo che prende consapevolezza del potere del proprio operato è un singolo inarrestabile. La volontà di un singolo che ha capito questo, è davvero una potenza irrefrenabile. Puntare sulle alternative, anche a costo di qualche sacrificio in più, ci ripagherà enormemente nel tempo. Investire su quelle attività che lottano contro la mafia, che credono nel cambiamento, questo può davvero restringere quella seconda cerchia. E cosa accadrebbe allora? Accadrebbe che depauperando le attività foraggiate illecitamente, gli imprenditori non vedrebbero più la criminalità come una “garanzia”, ma come un investimento rischioso. Gli imprenditori e i commercianti non sarebbero più tentati a fare affari con la criminalità, perché la loro attività avrebbe sempre una macchia, una macchia tanto grande da poter compromettere l’esito dell’attività stessa.
Le ricadute del nostro operato oggi, possono verificarsi fra 5, 10, 20 anni, ma accadranno. Per il cambiamento non servono degli eroi, bastano dei piccoli gesti, semplici, banali, ma costanti. Forse saranno i nostri figli a beneficiare di questi effetti, forse i nostri nipoti, i figli di quei figli che oggi stanno scappando dalla Sicilia. Ma per aver questi effetti occorre iniziare ora.
Quindi, riallacciandoci al tema da cui siamo partiti, possiamo dire che sì, in un certo senso “siamo tutti mafiosi”. Lo sono gli imprenditori conniventi e lo siamo tutti noi nella misura in cui neghiamo il conflitto e nascondiamo la testa sotto il terreno. Ma si tratta di una verità parziale, che rischia di diventare uno slogan troppo comodo dietro cui insabbiare nuovamente il conflitto. La situazione è infatti molto più complessa, come ho cercato di dire, e passa non dall’appianamento delle differenze, ma dalla loro esaltazione. Bisogna distinguere le differenze fra uomini e gruppi sociali, e distinguere chi sceglie da chi no. Ma tutto questo richiede la nascita di un serio confronto con noi stessi, partendo dall’ammettere che viviamo in una società profondamente ingiusta e segnata da interne lacerazioni. Analizzare queste lacerazioni equivale forse ad aggravarle, ma credo sia la sola strada per spezzare la negazione collettiva che ci ingabbia nella falsa neutralità di quel secondo anello.
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Mafia a Biancavilla, quei fallimenti educativi al di là della cronaca
Il processo “Ultimo atto” e gli spunti di riflessione sui “buoni” e i “cattivi” che vivono a fianco
Una comunità di persone vive anche di queste informazioni, ossia illustrare le attività investigative delle proprie agenzie di controllo. «Blitz “Ultimo atto”, la Procura chiede 125 anni di carcere per 13 imputati», è l’articolo con cui Biancavilla Oggi ci aggiorna sul «rito abbreviato per Pippo Mancari “u pipi” e i suoi picciotti, accusati di mafia, droga ed estorsioni». Normalmente è così: si parla dell’organo che ha indagato, del reato, possibilmente con le ipotesi del guadagno illecito, le attività criminose, i comportamenti, le vittime, spesso senza nome, o soltanto alcune di quelle che in realtà hanno subito. Poi si passa ai criminali, le facce, gli anni di galera previsti, l’attesa del giudizio. Tutto in una sequenza che sembra esaustiva e completa. Poi vedremo le condanne, la sentenza, l’appello, etc.
Questo ci basta? Ci basta questo per sentirci a posto come cittadini? Sembra di assistere ad un canovaccio uguale e distante da noi, anche se stiamo parlando di persone e gente che incontriamo ogni giorno. Mi chiedo: questa operazione di polizia e la sua divulgazione ci bastano per la nostra idea di comunità? Non c’è forse un tratto di vita tra carnefici e vittime che ci potrebbe interessare di più? La frattura al contratto sociale si ricompone da sola? Mi chiedo. Loro sono i cattivi, o quelli che hanno sbagliato – e si vede dalle facce – e noi siamo i buoni? È proprio così?
In realtà nelle strade e nelle piazze siamo lì, insieme, ognuno per la propria vita, ma tutti accanto l’uno all’altro. Questo tipo di notizie, che diventano solo cronaca, non sono fin troppo indifferenti alla vita di chi ha sbagliato e di chi ha subito il torto.
Come possiamo fare per capire ciò che potremmo fare in termini comunitari? Perché si continua a chiedere il pizzo e si continua a spacciare, nonostante le pene previste? Parlo ovviamente in termini generali e non su questo caso specifico.
Io penso che dove si commette un reato di questa portata, qualcosa non ha funzionato anche prima ed anche in tutti noi. In questa comunità di persone c’è stato un fallimento. Reati del genere coinvolgono molte più persone, atteggiamenti, comportamenti, amicizie, conoscenze. Un mare di persone. E molto tempo prima ha lasciato che le cose sfuggissero di mano. Reati del genere parlano di fallimenti educativi in primis, poi di tante altre cose. C’è il momento della condanna, dopo le indagini, ma il momento per comprendere come siamo arrivati, un’altra volta a queste situazioni quando? Quando comprenderemo di quali passaggi è fatto un percorso di comunità in questa direzione?
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Andrea Ingiulla
17 Febbraio 2019 at 17:42
Analisi molto lucida, profonda e purtroppo amara sulla condizione della nostra società meridionale. La questione che pone l’estensore del pregevole intervento (che non ho il piacere di conoscere personalmente) costituisce uno dei tanti risvolti del problema più volte segnalato anche da altri. La nostra Biancavilla ha bisogno di risvegliarsi dal torpore e di abbandonare l’apatia, in cui la maggioranza silenziosa dei suoi abitanti sembra ormai essersi rifugiata in modo irreversibile.