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Cultura

Alfio Grasso esplora la Biancavilla degli “Antichi versi contadini”

Volume edito da “Nero su Bianco” sul poeta dialettale Placido Cavallaro: lascito prezioso per la cultura siciliana

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Qualche giorno fa, verso l’ora di pranzo, mi sono trovato per caso tra le mani un volumetto appena giunto per posta, uno studio di poco più di 100 pagine con un titolo molto accattivante – quello di cui sopra – che ha subito ridestato il mio radicato interesse per la sicilianità delle produzioni locali, non solo per la novità dei temi ivi elaborati ma soprattutto perché conosco la valentia del suo Autore, mio Amico da alcuni anni. Sebbene condizionato da impellenti cure personali che spesso mi distraggono altrove, non appena sul cominciare ho intuito il fine culturale che questi intendeva perseguire, non sono più riuscito a rimandarne una rapida presa di visione, con lo stesso risultato di chi, ritrovandosi davanti ad un canestro di succose ciliegie fresche di raccolta, ha finito per prolungare il suo assaggio fino a farlo diventare un peccato di gola.  Già nel primo pomeriggio gli occhi e la mente avevano divorato quei contenuti per me tanto avvincenti!

Mi sono più volte chiesto quale possa essere stato l’interesse di questa pubblicazione. A me sembra, comunque, che il suo tema dominante – meglio il suo leitmotiv – sia costituito dalla convinzione dell’Autore che l’amore per l’agricoltura possa talora diventare poesia, come tende a dimostrare l’esempio creativo del concittadino Placido Cavallaro, poeta già noto a Biancavilla tra la fine del Settecento e le prime decadi del secolo seguente. Ed è sulle produzioni rimate di quest’ultimo (tutte estemporanee e trasmesse oralmente, essendo lui contadino e analfabeta) che Alfio Grasso ha voluto fondere insieme una varietà di conoscenze acquisite che spaziano agevolmente nel vissuto paesano in cui il nostro antico Poeta ha lasciato memoria di sé. I risultati che si colgono a fine lettura, ne sono certo, sono talmente entusiasmanti, per la loro capacità di tenere la mente incollata a quegli scritti sentiti e spontanei, da farmi ritenere che un evento di tale eccezionalità non capita da noi così spesso. Senza girarci troppo intorno, non esito sin d’ora a definire questa fatica di studio del prof. Grasso come una delle più valide tra quelle similari prodotte durante l’ultimo decennio. Ciò per la maestria non comune con cui sono stati fusi insieme tanti dati storici (tutt’altro che barbosi!) attinenti alla nostra realtà contadina con i sentimenti genuini e toccanti delle passate generazioni del nostro abitato, ivi compresa la speranza fiduciosa, tipica anche in Cavallaro, di superare con la fede in Dio e con le proprie capacità le difficoltà della vita.

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Man mano che, non senza cupidigia, si sfogliano le pagine di questo lavoro, non sfugge al lettore attento quanto il nostro Studioso si renda compartecipe del desiderio, oltre ogni dubbio sincero e pervaso da malcelata commozione, di pervenire ad una perfezione sempre difficile da appagare, ma che si accomuna volentieri con lo spirito positivo del Cavallaro, pervicacemente onnipresente – ovvero far bene sempre, quali che siano i sacrifici profusi anche negli anni di magra, quando le crisi climatiche lasciano talora decomporre nello scoramento le loro piaghe prodotte dalle aspettative tradite. Vi si legge, in questo gradevole volume, specialmente là, dove sono commentate con certosina sequenza le operazioni che vanno dall’aratura fino alla trebbiatura del grano, la nostalgia per noi ormai sepolta nell’oblio dei posteri, di una civiltà agreste che è rimasta per secoli la stessa, uguale a quella evocata con varie sfumature dai ritmi flautati delle Bucoliche e delle Georgiche virgiliane, identica, pure, a quella, austera e rispettosa, perseguita con passo sacrale da celebri figure come Catone il Censore, Cicerone e tanti altri.  Ne emerge un’intima, elegiaca voce di un mondo mirabile in cui scorrevano, a detta dei poeti classici, soavi “fiumi di latte e di miele”, una realtà esistenziale ove la dea Natura, durante l’usata fatica del giorno, era onorata dalle note ritmicamente disuguali dell’agricoltore analfabeta ma virtuoso quale Madre benevola capace di riequilibrare a tempo opportuno le speranze di chi tutto a lei si donava, e di assicurare a ciascuno, con la sua prodiga ubertosità, la continuità della sopravvivenza.

Recreatus sum, non poteva essere diversamente, mi son detto a lettura ultimata! L’abbondanza dei dati socio-culturali riscontrati nell’opera di Alfio Grasso, sapientemente coniugati con una descrizione precisa delle pratiche agricole dei nostri antenati, ha fatto addentrare i miei ricordi di studente universitario in epoche ancor più remote, in particolare nell’età del Medioevo che da noi si è prolungata fino a ieri, quando in ogni angolo d’Europa riscontravo nelle mie ricerche le puntuali carestie, cui seguivano tante pestilenze, che comunque costringevano la generale povertà della classe plebea ad infittire i propri sforzi quotidiani per strappare all’avarizia della terra un tozzo di pane. Io non dimentico, memore come Alfio Grasso, che questo malessere si adattava di necessità, da allora fino a pochi anni fa, anche alle mie scelte educazionali riecheggiandomi nel cuore l’umile ritmo di quell’Indovinello Veronese che, nel suo modo spiccio di far cultura, non sapeva discostarsi dal mondo circostante che lo aveva visto nascere:

“ [ante] se parebat boves,
[…]  pratalia arabat,
[…] versorio tenebat
et […] semen seminabat ”

” aggiogava davanti a sé i buoi,
arava i […]  prati
in mano teneva […] l’aratro
ed interrava la […] semente

Sebbene composto all’interno di una cella claustrale da un anonimo monaco che difficilmente immagino si sia sporcato qualche volta le mani di terra, questo rozzo gioco in versi, con la stessa dignità della poesia di Placido Cavallaro, rende lodevolmente atto ad una realtà esistenziale che nella pratica agricola, un tempo come oggi, ha impresso nella mente di ciascuno la sua ragion d’essere fino al punto di rendersi irrinunciabile. Per questo ora, in piena comunione con l’Autore, mi immagino quell’anonimo frate-poeta nell’atto di dichiararsi a-posteriori solidale con lo zotico da cui riscuoteva le sue immerite decime del raccolto e, parallelamente, quel villico, tenuto inconsapevole e vilipeso, che abitualmente contaminava col sudore della fronte le sue iterate preghiere a Dio urlando nel contempo in solitudine la vana irruenza delle proprie imprecazioni contro l’eccessiva lentezza delle sue bestie.

Come non accorgermi, a questo punto, grazie soprattutto a questo bel libro, che i miei studi giovanili non sono stati, in tutti questi anni, inutili alla mia crescita civile!

Addentrandosi nell’analisi storica e poetica di alcune ottave famose di Placido Cavallaro, sin dall’inizio il prof. Grasso ha voluto chiarire in questi termini il suo interesse – divenuto anche il mio – per il nostro Poeta concittadino, inserendolo in maniera decisa nell’ambito esclusivo da cui quest’ultimo proveniva e si integrava, ossia il mondo agricolo:

[Quelli di Placido Cavallaro] sono versi dialettali ispirati dal duro lavoro dei campi…, componimenti che ci tramandano un’esaltazione dell’agricoltura come arte pulita e duci. E per questo, nonostante l’analfabetismo, consapevole e responsabile del ruolo di tramandare usi e tradizioni, [il Poeta fu] aperto al progresso della tecnica e della scienza in un settore economico che aveva raggiunto una certa rilevanza…”.

Ma… perché tanto interesse da parte dell’Autore per quell’uomo semplice e per di più analfabeta? La risposta mi sembra ovvia quanto un’evidenza lapalissiana: Alfio Grasso, sebbene oggi in pensione, è stato, ed è, uno stimato Docente che ha prestato per anni servizio presso la Facoltà di Agraria delle Università di Palermo e di Reggio Calabria ed è inoltre esperto in questioni economiche, tecniche di coltivazione e produzioni agricole nel Meridione. È normale, quindi, che egli si sia lasciato attrarre da temi specifici come quelli proposti dal Cavallaro! Il nostro dotto Prof. è profondo conoscitore della storia dell’agricoltura italiana nonché delle politiche agrarie adottate in Sicilia, il che sottintende che anche la specialità delle coltivazioni in uso da noi nei secoli scorsi fino ad oggi sia parte integrante della sua preparazione professionale. Tanto io oso affermare giacché la dovizia di così larghe conoscenze acquisite è ampiamente dimostrata dalla ricchissima bibliografia storiografica che figura in tutto il volume a dimostrazione del corposo e paziente lavoro di ricerca cui egli si è diligentemente dedicato.

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Il prof. Grasso, però, non mi ha impressionato solo per la mole delle evocazioni che ha saputo far seguire all’indagine storica, egli ha incantato la mia attenzione (come un’ingenua allodola attratta dallo specchietto) risvegliando nei miei ricordi una enorme quantità di termini e locuzioni colorite appartenenti al nostro territorio – abituali nell’eloquio personale del Cavallaro – che, per quanto adesso del tutto desueti, ancora bambino io sentivo pronunciare dai contadini che venivano a lavorare nei miei campi parentali, e poi dalla mia nonna materna (nata nel 1882), da mio padre (classe 1897) e da altri coevi che la sorte mi ha permesso di frequentare e di amare.

Di questo io ringrazio l’Autore di questo bel libro perché, dall’evocazione dei preziosi retaggi del passato, un’anima nostalgica come la mia è difficile che riesca ad allontanarsi senza soffrire. Leggere certi commenti appassionati, che tanto insistono sui dettagli di tanti significati vernacolari, è stata per me beatitudine pura perché inevitabilmente ciò ha ricreato nella mente assorta un mondo oggi sepolto, ma che è stato anche il mio. Ciò che è stato evocato non è solamente – e lo dico a beneficio di tutti – la foto di un nostro caro defunto a commuoverci fino strappare dal cuore un profondo sospiro quando pietosi ne celebriamo le ricorrenze, ma si lascia anche intuire, servendosi di una semplice parola dei nostri padri o di una battuta, magari divertente, la stessa che qualche volta, senza capirla, riuscivo un tempo a carpire alle labbra di mia madre. E le dissertazioni di Alfio Grasso lo dimostrano!

Sei stato davvero bravo nel tuo descrivere soprattutto perché, Amico mio, hai saputo aggiungere talora alle tue pagine poesia a poesia! Non ho dimenticato che tu mi sei coevo e che anche tu, come me, da ragazzo hai vissuto le miserie esistenziali del Dopoguerra. Proprio questo, forse, ti ha fatto alzare le ali verso le nobili sfere dei ricordi infantili mai sopiti, quelle degli alti ideali che via via ti sono stati impartiti da una sorte benevola, tant’è vero che sei andato volentieri a braccetto, nel tuo ideale procedere, con Placido Cavallaro col solo proposito di ascoltarlo, beato, mentre al vento, non sulla carta stropicciata di un manuale, declamava alla presenza del primo venuto il suo canto ingenuo e puro alla bellezza del Creato, di una Natura tanto prosperosa e benigna da elargire a tutti, sempre puntuale all’arrivo di giugno, quel pane della vita che, dopo la fatica di interminabili lavori, si sposava, finalmente e in allegria, con una buona “cannata” di “vinuzzu sinceru”. Questo per dirti che il valore del tuo libro riposa soprattutto nell’amore che ci hai messo dentro, nelle emozioni che hanno contraddistinto la tua piena adesione a quei sentimenti che non appartengono solo a Placido Cavallaro, perché anch’essi già fanno parte della modestia vereconda che virtuosamente copre le tue soddisfazioni private. Ciò che hai scritto è il dono più prezioso che Tu potessi devolvere a beneficio della tua città, e per questo merita senz’altro di essere letto e apprezzato da qualunque uomo di cultura, anche non necessariamente letterato. E non preoccuparti se qua e là c’è scappato qualche innocente refuso, com’è inevitabile che sia: una ragazza bellissima, se è veramente tale, rimane attraente anche quando, per disavventura, si ritrova infastidita da un’accidentale sbavatura di rossetto o di rimmel. Complimenti!

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Cultura

Il Venerdì santo del ’68: l’Addolorata in processione nel mondo in rivolta

Uno scatto inedito ritrae i fedeli in via San Placido: la devozione popolare in quell’anno turbolento

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© Foto Biancavilla Oggi

L’immagine in bianco e nero, qui sopra a destra, che per la prima volta viene staccata da un album di famiglia e trova collocazione su Biancavilla Oggi, ci restituisce il frammento di una processione della Madonna Addolorata. Il corteo avanza compatto in via San Placido, a pochi passi dall’ingresso del “Cenacolo Cristo Re”. Sullo sfondo, il monastero “Santa Chiara”, dalla cui chiesa il simulacro è appena uscito. Donne eleganti nei loro tailleur, borsette al braccio, volti composti, sorrisi accennati. Uomini in abito scuro, qualcuno in cravatta, qualche altro con la coppola.

Non è un anno qualsiasi: è il Sessantotto. È il 12 aprile 1968: quella mattina del Venerdì Santo, a Biancavilla la storia aveva un sottofondo diverso. Lo scatto fotografico dell’affollata processione, che qui pubblichiamo, coglie un istante di vita di provincia, mentre il mondo era in rivolta.

Otto giorni prima, a Memphis, Martin Luther King veniva assassinato. Negli Stati Uniti, le fiamme delle proteste bruciavano il sogno della nonviolenza. In Italia, gli studenti occupavano le università, lanciando un’ondata di contestazione che avrebbe investito scuole, fabbriche e palazzi del potere. La primavera di Praga era nell’aria, prima che le speranze di libertà finissero sotto i carri armati sovietici. A Parigi, il Maggio francese era pronto a farsi sentire in tutto il suo fragore. E in Vietnam, la guerra e il napalm trucidavano vite e coscienze.

Ma a Biancavilla, in quel venerdì di aprile, la processione dell’Addolorata si muoveva lenta e composta, come ogni anno da secoli. La scena è cristallizzata. Nessuna spettacolarizzazione, nessuna teatralità: soltanto un popolo di fedeli che cammina, che prega, che resta unito nel dolore di Maria. Come se quel dolore universale della Madre che ha perso il Figlio, bastasse a rappresentare anche le inquietudini del presente. Come se, nella liturgia popolare, ci fosse spazio per elaborare anche i drammi collettivi del mondo.

È una Biancavilla ancora intima e raccolta. Ma non per questo isolata del tutto. È semmai una Biancavilla che custodisce le sue radici quando tutto corre verso il cambiamento, necessario e inevitabile. In quella processione religiosa, c’è forse un senso di continuità che si oppone all’instabilità: un tentativo di conservare la tradizione nell’impellenza della modernità.

Riguardare oggi questa fotografia, dunque, non è affatto un esercizio di nostalgia. È un atto di lettura storica e culturale, in un accostamento tra quotidianità locale (racchiusa in quell’istantanea di via San Placido) e narrazione globale (come nell’iconica ragazza col pugno chiuso tra le vie parigine). È vedere come una comunità, anche in quell’anno turbolento, sceglieva di riconoscersi nei propri riti. Non per chiudersi al mondo, ma per affrontarlo con una dichiarazione silenziosa di identità: «Noi siamo ancora qui. Insieme. Anche se il mondo cambia. Anche se tutto sembra franare».

Non è distacco o indifferenza. Il vento del Sessantotto, con la sua carica rivoluzionaria e il sovvertimento di canoni sociali e tabù familiari, in qualche modo, arriverà poi (finalmente) pure a Biancavilla, minando le fondamenta del patriarcato, della sudditanza femminile, della cappa clericale e di tutte le altre incrostazioni e arretratezze. Una battaglia di civiltà e progresso ancora aperta, da rendere viva e riadattare anche oggi, in questo Venerdì santo 2025, nel quale movenze e itinerari dell’Addolorata si riproporranno intatti e immutati.

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Cultura

Alle origini dei “Tri Misteri”: il ruolo delle confraternite, le prime processioni

Le congregazioni scomparse di Sant’Orsola e San Rocco e quelle del Rosario, del Sacramento, dell’Annunziata

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Con l’avvicinarsi delle festività pasquali, e con l’intento di proporre un rinnovato contributo di carattere storico sulle rappresentazioni della Settimana Santa a Biancavilla, ho ritenuto opportuno rielaborare un intervento da me tenuto nel gennaio 2018, nell’ambito di una tavola rotonda promossa dalla confraternita di Santa Maria Annunziata presso l’omonima chiesa.

Il tema affrontato in quella occasione riguardava, in particolare, le origini e gli sviluppi delle più antiche istituzioni confraternali della comunità etnea, tra le quali si annoverava anche quella scomparsa di Sant’Orsola. Le altre che riuscirono a sopravvivere, a partire dalla prima metà del Seicento, furono sempre più strettamente legate alle espressioni devozionali della Passione di Cristo nella tradizione locale. Il contributo che si presenta qui, su Biancavilla Oggi, si basa sull’analisi di un complesso apparato documentale, rintracciato soprattutto presso l’Archivio di Stato di Catania e l’Archivio Storico Diocesano del capoluogo etneo.

Radici che affondano alla fine del 1500

Le testimonianze documentali più antiche attestanti l’esistenza delle confraternite a Biancavilla risalgono alla fine del Cinquecento, come emerge inequivocabilmente dai volumi dei Registra litterarum conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Catania. All’interno di questo corpus documentale si evidenzia, in maniera particolare, la presenza di una confraternita scomparsa, quella, già menzionata, di Santa Orsola, la cui memoria – sebbene oggi completamente svanita – fu un elemento fondamentale della vita sociale della cittadina nel secondo decennio del Seicento.

L’istituzione era stata concepita per garantire, in modo gratuito, la sepoltura cristiana dei corpi dei meno abbienti e degli esclusi. È probabile, inoltre, che i suoi capitoli statutari fossero stati redatti seguendo l’esempio dell’omonima compagnia attiva a Roma, modello che fu successivamente adottato a Catania nel 1572. In questo contesto, l’imitazione del modello romano si accompagnò a una significativa spinta promozionale esercitata dai padri gesuiti e, in seguito, dai frati minori cappuccini. L’intervento di questi ultimi in Sicilia determinò, infatti, l’istituzione della confraternita anche in altri centri urbani, come anzitutto a Palermo, dove il sistema delle indulgenze pontificie contribuì in maniera decisiva alla sua diffusione.

La confraternita di Sant’Orsola, non solo funerali

Nel contesto biancavillese, la funzione della confraternita di Sant’Orsola andava ben oltre l’esecuzione del rito funerario: essa rappresentava anche un importante strumento di aggregazione volto alla formazione di una coscienza civica, specialmente in un periodo in cui il substrato demico, in via di ricostituzione a partire dall’ultimo ventennio del Cinquecento, vedeva l’insediamento di nuovi nuclei familiari, incentivato dall’azione politica e amministrativa dei Moncada.

Sono le analisi, condotte da Paolo Militello sui riveli del 1593 e poi da me sui riveli del Seicento nonché sul Libro antico dei matrimoni,a evidenziare con forza questo dato, rivelando come parecchie furono le famiglie oriunde non solo dall’area etnea, ma anche da quella nebroidea a giungere a Biancavilla negli anni a cavallo tra Cinquecento e Seicento. In questo senso, emblematico appare il caso di Dimitri Lu Jocu, il fondatore e protettore della chiesa di Santa Maria Annunziata, il quale si stanziò nella cittadina etnea nell’ultimo decennio del XVI secolo, dando un contributo assai importante alla ridefinizione della identità sociale e religiosa biancavillese.

Sant’Orsola, i cappuccini e l’oratorio

Si inserisce, così, in questo quadro la fondazione della confraternita di Sant’Orsola, che si proponeva come una risposta strategica alla necessità di provvedere al seppellimento dei defunti: una funzione che, in tale contesto, assumeva una valenza simbolica pari a quella della costituzione di una rete di solidarietà e di coesione sociale. Si potrebbe ipotizzare, in tal senso, che determinante fosse stato l’intervento dei frati minori cappuccini presenti ad Adernò, il cui insediamento era stato fortemente voluto dal conte Antonio Moncada tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII. D’altro canto, il loro convento era stato eretto con le elemosine dei fedeli nella zona occidentale della città, sede della contea, e più precisamente a ridosso della strada che conduceva alli greci.

L’anno 1618 rappresenta una pietra miliare per la confraternita di Sant’Orsola: in tale data, i confrati procedettero alla costruzione di un oratorio situato al di fuori del centro abitato, lungo l’antica via che, per l’appunto, connette Biancavilla ad Adrano, dedicando l’edificio alla propria protettrice. Il documento che sancisce tale intervento, sottoscritto alla presenza di don Filippo Raccuja e di don Leonardo Mannella, e debitamente attestato con il patto stipulato dal procuratore Nicola Antonio Rapisarda con mastro Antonio Carchiolo di Regalbuto, prevedeva la realizzazione nella chiesa del dammusu dilla sepoltura, del portale di ingresso e del campanile. Sebbene l’edificio risulti attualmente inagibile, esso rappresenta una testimonianza fondamentale dell’attività congregazionale, avendo ospitato, alla fine del Seicento, per ben otto anni, i frati minori riformati di San Francesco, in attesa del completamento del loro convento (1686).

La confraternita di San Rocco e il Cristo alla colonna

Per quanto concerne la confraternita di San Rocco, le testimonianze documentarie risultano estremamente lacunose. Nei Registra litterarum, datati al 1623, si apprende che i confrati appartenenti a tale istituto ottennero, in quell’anno, il permesso di introdurre in chiesa la statua del Cristo alla Colonna (flagellato), scolpita ad Adrano. Questa informazione permette di ipotizzare che la chiesa di San Rocco, alla pari di quella di Sant’Orsola, abbia avuto origine come oratorio privato della confraternita nei decenni finali del Cinquecento e che i confrati, pionieri nella conduzione processionale del simulacro del Cristo, abbiano dato avvio ai riti pasquali biancavillesi dei cosiddetti Tri Misteri, sebbene ancora in una forma embrionale.

L’analisi comparativa dei documenti relativi ad Adrano suggerirebbe, altresì, che lo scultore della statua del Cristo alla Colonna sarebbe da rintracciare nel magister lignaminum Rocco Terranova, attivo in quella città nei primi decenni del Seicento. Egli, d’altro canto, come ho potuto appurare, fu il fautore della statua di santa Chiara (1608) di Adrano nonché di quella di San Rocco per l’abitato di Caprileone (1618). A detta dello storico adranita Simone Ronsisvalle, sarebbe stato anche il Terranova a realizzare il simulacro del Cristozzo negli anni Trenta del Seicento.

La confraternita del Rosario

Nel 1682, il Maestro Generale dell’Ordine dei Predicatori (Domenicani), Antonio de Monroy, acconsentì all’istituzione della confraternita del SS. Rosario a Biancavilla, solo, però, a condizione che la chiesa originariamente intitolata a San Rocco fosse ribattezzata in favore del nuovo istituto. A seguito di tale riorganizzazione, i membri della confraternita si adoperarono, nell’ambito della liturgia pasquale, per la processione del simulacro del Cristo alla Colonna, assumendo contestualmente la legittimità amministrativa della sacrestia e di alcuni fabbricati annessi.

Di ulteriore rilievo è il fatto che le proprietà appartenenti al SS. Rosario vennero integrate al patrimonio con i proventi derivanti dall’intervento testamentario dell’abate don Antonino Piccione tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. L’abate espresse, infatti, il desiderio di fondare un monastero sotto il titolo di Santa Chiara. L’intenzione non venne, tuttavia, realizzata nei secoli successivi, così, diversi ambienti adiacenti alla chiesa furono demoliti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

La confraternita del Sacramento

Tra le confraternite sopravvissute nel corso dei secoli, un’attenzione particolare merita quella del SS. Sacramento, la cui istituzione risale verosimilmente alla fine del Cinquecento, in analogia con evidenze reperibili in altri centri etnei, quali Paternò (1563) e Adrano (1570), nonché nei casali etnei della provincia di Catania. Sebbene i documenti attestanti l’origine dell’istituto siano scarsi, è accertato che nel 1618 la confraternita fosse già operativa, come comprovato dalla destinazione a essa di una clausura arborata e di un palacium, consistente in due corpi abitativi ubicati nel quartiere dilla fontana e confinanti con le dimore limitrofe alla Matrice. Nello stesso anno, si registra un lascito a opera di Paolo Marchese per la somma di onze 14.

Nel 1620, i confratelli ottennero dal vescovo di Catania il permesso di portare in processione il quadro di San Giuseppe, che era stato dipinto a Paternò presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie Inferiore, sede dei padri agostiniani della riforma centuripina. Ancora vent’anni dopo, nel 1640, la licenza concessa ai confratelli per celebrare la messa all’interno della cappella di San Placido conferma non solo l’esistenza dell’ambiente consacrato al patrono del centro abitato etneo, ma anche la fondatezza di certi legami tra la confraternita e il martire messinese.

La confrtaernita dell’Annunziata

In tal modo, già a metà del Seicento, le confraternite di Biancavilla – in particolare quelle del SS. Sacramento e dell’istituto, originariamente noto come San Rocco e poi ribattezzato del SS. Rosario – animavano in maniera strutturale le processioni della Settimana Santa. A queste due, nel 1656, si aggiunse la confraternita della SS. Annunziata. Tali istituzioni, seppur caratterizzate da differenti datazioni cronologiche, rappresentano le più antiche realtà aggregative sopravvissute sino ai giorni odierni, testimoniando la volontà dei predecessori di unirsi sotto l’egida della Santa Eucaristia e della Madre di Dio, al fine di commemorare le festività sacre, instaurare una preghiera collettiva e adempiere ritualmente al dovere funerario per i propri confratelli.

Le analisi che ho condotto, infine, sulla documentazione della chiesa di Santa Maria Annunziata mi ha permesso di identificare già nel 2015-2016 un accordo contrattuale stipulato tra la confraternita del SS. Sacramento e quella della SS. Annunziata. Alla presenza dei rispettivi direttivi, i confratelli definirono le modalità di intervento durante la processione pasquale – nota come a Paci – stabilendo che i membri della SS. Annunziata si collocassero a sinistra rispetto a quelli della SS. Sacramento, configurando una preminenza processionale che sembra ricondursi a motivazioni cronologiche legate all’ordine di fondazione. In tal modo, le due confraternite assunsero la funzione complementare di condurre il Cristo Risorto e la Madonna, coadiuvata dall’Arcangelo Gabriele, rito che, a distanza di quasi trecento anni, rimane un pilastro dell’identità devozionale locale.

Le confraternite e l’identità locale

In conclusione, questa breve disamina intende rivelare come le confraternite di Biancavilla a partire dal Seicento abbiano rappresentato non solo strumenti di cura spirituale, ma anche fondamentali dispositivi aggregativi, capaci di forgiare e consolidare una coscienza civica nell’ambito di un tessuto sociale in evoluzione. Queste istituzioni, pur nelle loro trasformazioni, continuano, infatti, a essere testimonianza della volontà dei predecessori di celebrare e perpetuare il proprio patrimonio devozionale, costituendo un pilastro vivo dell’identità locale.

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