Cultura
Il “Padre nostro” che pronunciò Gesù tradotto a Biancavilla dall’aramaico

Padre Nostroin cielo / sia santificato / il tuo nomevenga il tuo regno / il tuo voleresia fatto in cielo / come in terradona a noi oggi / il pane / per il nostro bisognoe perdona / le nostre colpecome anche noi perdoniamoai nostri offensorie non lasciarci / esposti alla tentazionepiuttosto / liberaci dal male / amen
Propongo all’attenzione di tutti coloro che macinano per diletto ancora cultura, e come autentica novità, almeno per Biancavilla, questa mia ultima fatica nata da studi e ricerche pluridecennali e dagli esiti maturati col tempo da importanti colloqui intervenuti durante un breve soggiorno in Terrasanta. Si tratta del testo più antico, fra quelli in circolazione, del Pater Noster, quello pronunciato da Gesù di bocca sua, che io ho tradotto dall’aramaico, parola per parola, escludendomi da qualunque interpretazione dottrinale e limitandomi a sostituire in italiano, al millesimo, il significato nudo e crudo dei termini originari. A lavoro finito, non sono riuscito a frenare il mio stupore quando ho notato la differenza notevole che intercorre fra il mio testo, puro, incontaminato come acqua di sorgente, e quello che per antica tradizione si è soliti recitare in chiesa e fuori. Leggendo, non si accusa nessuna eresia da parte mia – il senso del contenuto è sostanzialmente identico a quello che proclamiamo con fede – piuttosto colpisce la forma, il diverso modo di dire, e quindi l’effetto notevole provocato al nostro cuore dalla parlata semplice e piana del Nazareno, una sapienza verbale che merita senz’altro di essere evocata, apprezzata e rivalutata.
Nelle righe che seguono, pur senza toccare alcun argomento di natura dottrinale – perché non si contesta nulla di ciò che attiene alla Fede cattolica – emergono, però, alcune osservazioni d’ordine linguistico e filologico di cui, mi risulta, per iniziativa di Papa Francesco e del fu card. Carlo Maria Martini, gli specialisti vaticani del nostro tempo stanno già prendendo visione col proposito di “correggere”, o comunque modificare, alcuni termini di questa preghiera così importante.
Ho letto da qualche parte che il nuovo testo italiano del Pater Noster uscirà, insieme ai nuovi testi liturgici, intorno al 2021.
Riguardo al testo che qui propongo, e per tutta chiarezza, mi piace sottolineare a titolo personale alcune mie modeste considerazioni, che sono imprescindibili ai fini della comprensione globale del mio lavoro notevole per mole e importante alla mia conoscenza per i risultati prodotti. Resta intatta comunque l’umiltà del mio propormi, con l’augurio di essere riuscito a valorizzare i contenuti di una preghiera che non sempre da noi è recitata, per routine, con la dovuta attenzione a ciò che diciamo.
La presente traduzione, detta “comparata” perché confrontata con tutte le altre in circolazione, manca anzitutto dei segni d’interpunzione per essere resa conforme al testo originale. Gli antichi semiti, infatti, non conoscevano la punteggiatura e lasciavano al tono della voce e alla gestualità la funzione di guidare la comprensione dell’ascoltatore. Essendo una lingua primitiva, tanto che i suoi simboli alfabetici sono un’elaborazione sommaria di quelli fenici, l’aramaico è essenziale sia nella struttura della frase sia nel significato delle singole parole, che sono scarne nella loro brevità e povere di sinonimi. Ciò non permette al traduttore alcuna possibilità di modificare, anche di poco, l’unicità e la semplicità di quanto Gesù ha pronunciato davanti ai suoi seguaci.
Questa considerazione dovrebbe bastare a far capire tante altre cose. In primis, chiarisco che la mia traduzione esula di proposito – sebbene ne tenga conto – dalla stesura in ebraico, perché posteriore e per di più rimaneggiata, essendo lingua di cultura usata ufficialmente nelle sinagoghe per commentare i testi liturgici e biblici. Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, anche per quella greca, che continua ancor oggi a far figura di versione assai evoluta, molto pîù ricca di significati delle altre coeve, ben più ricercata tanto nella sua struttura quanto nella varietà degli impieghi lessicali.
Ora, proprio da un attento esame di quegli usi si vede, infatti, che le parole originali di Gesù, volte nella versione ellenica (per intenderci, la lingua dotta dei filosofi e delle Lettere di san Paolo), appaiono chiaramente come “interpretate”, più che tradotte, da persone già formate nella dottrina apostolica, le quali in buona fede hanno aggiunto arbitrariamente, ai fini di un corretto intendimento, un numero di termini addirittura superiore a quanto appare effettivamente nel testo originale. Un esempio molto forte di queste forzature linguistico-teologiche è la frase, presente nella versione greca, che recita “dacci oggi il nostro pane transustanziale”, che denuncia a me stupito l’aggiunta arbitraria di un aggettivo dotto che il Nazareno non ha mai pronunciato nella sua preghiera perché inesistente nel suo povero linguaggio giornaliero.
Pensate davvero che i seguaci di Gesù, affamati e tribolati da ogni sorta di handicap fisico e mentale, fossero in grado di capire l’esatto significato di un aggettivo così difficile? Il Pater Noster in aramaico, che si recita ancora da pochi privilegiati, rispecchia fedelmente la parlata reale del Nazareno, e soprattutto i momenti in cui Egli si incontrava, nel suo andare, con i suoi seguaci illetterati, dispersi dalla miseria come “pecore senza pastore”, “che non sapevano pregare”, ed impressiona non poco il traduttore scrupoloso per l’estrema chiarezza del suo stringato messaggio, monumento ineffabile di perfetta semplicità, sicuramente alla portata, proprio per la sua stretta essenzialità, della gente comune, degli analfabeti, dei diseredati del mondo.
Ho bandito, poi, dalle mie scelte anche la versione latina perché, tra quelle antiche, è la più brutta e la più infedele di tutte quelle che le hanno fatto da battistrada. Essa, a ben guardare, è una tardiva (IV sec d.C.) traduzione delle traduzioni derivate dai papiri greci, già notevolmente lontani a loro volta dal testo primigenio. Per non parlare della versione italiana che, insieme a quella inglese, è la peggiore in assoluto (si salva solo quella spagnola, che mantiene il senso un po’ più conciliante) perché ricavata da quella latina – più comoda e facile da tradurre in ambito ecclesiastico – e anche perché, in un punto, risulta talmente errata da apparire blasfema: e non ci indurre in tentazione….
Ci si chiede: come fa il Padreterno a “indurre in tentazione” (in inglese, con l’impiego del verbo “to lead”, a “condurre alla tentazione”) quell’umanità, già imperfetta di suo, che Egli invece vuole assolutamente salvare a prezzo del sangue del suo Figlio Unigenito?
I contenuti del dialogo di Gesù con Nicodemo (vedi Giov. 3, 14 – 21) smentiscono categoricamente il senso dato alla tradizionale traduzione italiana della preghiera che i Cattolici recitano quotidianamente. Più saggia è invece l’interpretazione nuda e cruda che offre il testo in aramaico cui mi sono attenuto: Il Dio-Amore dei Cristiani non induce gli umani in tentazione, né li conduce per mano sul ciglio della Geenna per vedere come vi cadono dentro. Piuttosto, li espone alla prova della tentazione, ovvero della seduzione del male – che è ben altra cosa – per vedere come reagiscono (insegna sant’Agostino) col potere del loro libero arbitrio davanti alla perfidia degli allettamenti terreni che si propongono alla loro scelta. Solo dopo Dio si riserva di liberarli dal male con la sua misericordia a prezzo del loro sincero pentimento. Ed è proprio da questo concetto basilare che trova plausibile spiegazione la logica della pietosa invocazione finale pronunciata da Cristo Redentore, vero conoscitore dei limiti dell’uomo.
Da notare, inoltre – altro grave errore di traduzione – che nella sua preghiera Gesù non parla di debitori di nessun genere – nemmeno figurati – ma solo di “offensori”, ovvero persone bisognose del perdono di Dio perché colpevoli d’avere leso, ferito, colpito il prossimo disprezzandone la dignità personale con le parole e con le opere.
Tirando le somme, il Pater Noster in aramaico è un mirabile capolavoro di semplicità proprio nel suo essere lineare, immediato, non quello che i moderni lo hanno fatto diventare con le loro speculazioni intellettuali. La traduzione italiana di questo testo sublime che si recita ovunque con pietà e rispetto doveva essere fatta da linguisti puri, geni della levatura di un Devoto, di un Romagnoli…, campioni indiscussi nel loro mestiere, non da guardinghi teologi dilettanti! Le speculazioni dottrinali, che sono giuste e doverose ove necessarie, andavano fatte, sin dall’origine, a margine del testo reale, non forzando a fini divulgativi ciò che è stato effettivamente detto da Gesù! L’eisphérein del testo greco e l’induco latino di san Gerolamo avevano, nel loro tempo, dei significati ben diversi da quelli che sono stati intesi e, soprattutto, da quelli ben più sofisticati che sono stati arbitrariamente appioppati nelle epoche successive!
Senza contare altre “sviste”! Leggendo dall’aramaico, colpisce non poco l’attenzione che Gesù ama rivolgere in via prioritaria agli esclusi dalla vita sociale. Così, ad esempio, notiamo, quanta tenerezza emerge, quanta pietà, nella sua voce quando, di fronte alla moltitudine che lo circonda, ed intanto soffre per la fame, Egli implora “donaci oggi il pane per il nostro bisogno”!
Perché, nel Pater Noster odierno, i Cattolici non lo dicono? Sono parole di Cristo in favore della gente che manca del necessario, non locuzioni accessorie!
Cosa dire? Nel cercare una soluzione apprezzabile alla voltura in lingua moderna ci si è dimenticati, molto tempo fa, che, quando gli antichi hanno provato a tradurre per la prima volta questa sublime preghiera, l’etimologia (la scienza che studia l’origine e il senso vero delle parole) non era ancora nata e valeva perciò solo la raccomandazione, non si sa fino a che punto scientifica, di Cicerone di tradurre a senso, quindi anche con parole diverse, rispettando al meglio possibile il concetto espresso in origine. Ciò perché allora, a differenza d’oggi, non esisteva tra gli usi lessicali, per carenza di vocaboli, un numero sufficiente di parole adatte a rendere l’idea di ciò che si voleva effettivamente dire, e questo ha messo tanta confusione in testa a chi ci ha provato.
La causa degli errori di traduzione, a ben guardare, sta tutta qui! Perché, allora, non rimboccarsi le maniche e rifare bene da zero? Il dizionario della Lingua Italiana è tra i più ricchi al mondo per numero di vocaboli e di locuzioni ed apre ad ogni traduttore infinite possibilità di esprimersi in maniera filologicamente corretta. Questa consapevolezza dovrebbe incoraggiare non poco gli addetti ai lavori, Chiesa permettendo, …con ben altri risultati!
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Cultura
La “volta” ritrovata: l’arcivescovo “svela” gli affreschi settecenteschi restaurati
Prezioso patrimonio di Biancavilla: nella chiesa dell’Annunziata risplendono le opere di Giuseppe Tamo

Un’opera restituita alla luce, memoria risvegliata, un segno di bellezza che attraversa il tempo: così Biancavilla ha accolto la presentazione ufficiale del restauro degli affreschi della Chiesa dell’Annunziata.
La cerimonia si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, seguita dalla conferenza di presentazione dei lavori della volta: un’opera ora visibilmente più luminosa, liberata dalla patina del tempo, da ritocchi dissonanti e dai cedimenti che avevano compromesso la sua integrità visiva e strutturale.
Un gioiello dentro uno scrigno
A introdurre e presentare l’incontro Dino Laudani, presidente della Confederazione diocesana delle confraternite, che ha ricordato come la Chiesa dell’Annunziata – autentico monumento cittadino – sia stata oggetto, negli ultimi decenni, di molteplici interventi conservativi. «Un gioiello dentro uno scrigno di fede e di arte», ha detto Laudani, sottolineando la continuità di un impegno collettivo nel custodire la bellezza.
Il parroco, don Giosuè Messina, ha ricostruito le origini dell’attuale restauro: «Tutto è iniziato nell’ottobre 2021. Dopo una pioggia battente, della polvere iniziò a cadere da una fessura, aperta dal terremoto del 2018. Fu un segnale. Da lì, con prudenza e speranza, partì il lungo iter verso il restauro». Un cammino reso possibile dal lascito testamentario della signora Maria Zammataro (39mila euro), dai 10mila euro di residui del fondo messo a disposizione della parrocchia da padre Placido Brancato (per quasi cinquant’anni parroco) e dalla generosità dei fedeli (poco più di 4mila euro). Il preventivo iniziale di 73.800 euro è salito a 82mila, coperto in gran parte da questi fondi.
Il sindaco Antonio Bonanno, presente all’incontro, ha annunciato lo stanziamento di 20.000 euro da parte del Comune per contribuire al saldo delle spese residue per un’opera che valorizza e impreziosisce la nostra città.

Una storia mai del tutto scritta
Il professor Antonio Mursia ha arricchito la conferenza con un’ampia contestualizzazione storica. Un documento del 1872 del Prefetto di Catania chiedeva una copia dell’atto di fondazione della chiesa: ma nemmeno allora, il prevosto fu in grado di fornirne una. Solo agli inizi del Novecento, lo storico Placido Bucolo riesce a ricostruire la storia della chiesa. A volerne la costruzione fu alla fine del Cinquecento Dimitri Lu Iocu, giurato della Terra di Biancavilla: un’iniziativa non solo religiosa, ma anche civile e politica. Nel 1714, grazie a un lascito di Maria Carace, si avviò l’ampliamento della chiesa, su progetto del magister Longobardus, figura di spicco nella progettazione ecclesiastica della diocesi.
Il restauratore: «Sobrietà e impatto visivo»
Il momento più tecnico dell’incontro è stato l’intervento del restauratore Giuseppe Calvagna. Gli affreschi della volta, realizzati nel Settecento da Giuseppe Tamo, erano stati eseguiti con la tecnica della pittura a secco, scelta versatile ma fragile nel tempo. Le infiltrazioni d’acqua, i terremoti e restauri maldestri effettuati tra Ottocento e Novecento – alcuni con latte di calce – avevano offuscato l’opera originale, coprendone i tratti e minacciandone la stabilità.
Il lavoro di restauro ha richiesto interventi strutturali complessi: consolidamento dell’intonaco con resine, fissaggio del colore per fermarne il distacco, rimozione di croste dure e sedimentazioni. Si è poi proceduto alla ricostruzione morfologica delle lacune e infine alla reintegrazione pittorica con colori ad acquerello, rispettando le tecniche conservative. «In alcune parti non abbiamo trovato tracce originarie – ha spiegato Calvagna – ma l’obiettivo è stato restituire leggibilità e armonia. Il risultato è un’opera sobria, equilibrata e di forte impatto visivo».
L’architetto Antonio Caruso, che ha diretto e mediato tra i diversi professionisti coinvolti, ha posto l’accento sull’importanza della manutenzione ordinaria. «Le opere architettoniche e decorative non sono eterne: richiedono attenzione costante, altrimenti rischiano danni irreversibili».
Il vescovo: «Immagini che toccano il cuore»
A chiudere, l’intervento dell’Arcivescovo Renna, che ha dato al restauro un significato teologico profondo: «Queste immagini non sono semplici rappresentazioni. Esse raccontano la fede: dalle antiche profezie che parlano di Maria, fino agli Evangelisti, immagini mariane e cristologiche che ci introducono al mistero della salvezza e che parlano fino ai nostri giorni restituendoci significati profondi. Come la simbologia dei fiori e della natura che fiorisce, segno più bello della redenzione dell’uomo. Nel ciclo possiamo trovare patristica, teologia, dogmatica, in un racconto che tocca ancora oggi il cuore dei fedeli.
Oggi, tra le volte luminose dell’Annunziata, quegli affreschi sembrano custodire una memoria silenziosa. Non parlano solo del passato, ma anche del presente e del futuro. Restano lì, tra luce e ombra, a ricordarci che ogni bellezza custodita è anche una forma di resistenza – contro l’oblio, contro il tempo, contro l’indifferenza.
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FOCUS
Cultura
Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati
Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.
Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.
“U Signuri” e i quartieri in festa
In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.
Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.
Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.
Gli altarini con le lenzuala bianche
Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.
Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.
Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati
Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.
Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.
Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.
Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.
Tradizione che si rinnova
Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.
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Salvatore
7 Settembre 2019 at 21:16
Egregio signor Francesco Piccione ho apprezzato molto lo sforzo che lei ha fatto per tradurre in lingua italiana la preghiera che Gesù ci ha lasciato come modello detta in gergo preghiera del Padre Nostro dopo tutta la sua attenta analisi mi chiedevo come mai non si è nessuno mai posto interrogativi che sono riportati all’inizio della preghiera come ad esempio a chi si rivolge Gesù chiamandolo padre? Qual è il nome che deve essere santificato? cos’è il Regno di Dio è qual è la volontà di Dio che deve essere fatta sulla terra? A questi interrogativi noi semplici esseri umani dovremmo trovare la risposta nella sua sacra parola scritta la Bibbia
Andrea
16 Aprile 2018 at 10:47
Dalle più o meno moderne idee di monismo(il male e il bene convivono in noi) e dualismo manicheo, o meglio, dalle contemporanee reinterpretazioni delle stesse idee, si ha la tentazione di pensare che l’uomo sia una creatura “composta” anche dal male(d’altronde ormai videogames, cartoni animati, anime, fumetti, ecc. non fanno altro che trasmettere ai giovani questa ideologia della normalità del male intrinseco all’uomo).
Certamente, le tragiche notizie quotidiane espresse – e spesso enfatizzate – dai mass media, non fanno altro che rafforzare in noi questa credenza.
In realtà, se Dio è totalmente e completamente BENE, ogni sua creatura non può che avere la medesima caratteristica e nessuna parte della complementare.
E a maggior ragione l’uomo, che come recita il salmo 8 “hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi”
Ci viene in aiuto, fortunatamente, il sommo Benedetto XVI, che nell’Udienza Generale del 3 dicembre 2008, diceva: <>. Attenzione! Qui il pontefice, non sta indicando la coesistenza di due entità – come di due “demoni” interiori all’uomo – invece, afferma: “sente … l’impulso”. Significa che c’è qualcuno, o qualcosa, che stuzzica, influenza, questo impulso che non è così primordiale e intimo come si crede. S. Paolo scrive nella lettera ai Romani (7, 18-19): <>.
Qui tutto il limite umano.
Nella parte finale della devastante traduzione che commento, vi è infatti la supplica di Cristo (anticipazione della preghiera dell’Ultima Ora nel Getsemani) a non lasciarci soli, scoperti, senza scudi nè armature(cfr S.Paolo Ef, 10-20) contro la tentazione. L’induzione al male non viene dall’uomo, nè da Dio. È a Lui, anzi, che chiediamo riparo, protezione, per qualcosa a cui impulsivamente – e dunque senza intelletto, senza ragione – non possiamo resistere con le nostre sole forze. Qualcosa che misteriosamente è permessa da Dio, seppur limitatamente al suo disegno divino a noi sconosciuto, del quale facciamo parte e per il quale abbiamo ricevuto due doni fondamentali in questa storia: la vita e il libero arbirtrio. Vita e libertà sono concause di ciò che scegliamo di essere e di ciò che ci è dato di essere.
Libera nos a malo.
Concludo con un’esortazione ai giovani, soprattutto a quelli più intelligenti che pensano di non credere, o pensano di essere atei. Approfittate del dono dell’intelletto che avete ricevuto, perché come sosteneva Boezio di Dacia: la felicità è la conoscenza del Vero, che si ottiene con la praticità dell’intelletto e della ragione nello Scoprire e nel fare il bene verso gli altri.