Cultura
“Petali, che passione!”, ecco i pensieri in libertà di Alfio Bisicchia

Appena qualche giorno fa ho avuto la gradita sorpresa di vedermi arrivare in studio il mio vecchio Amico, nonché ex compagno di scuola, prof. Alfio Bisicchia, ancora una volta solerte, come sempre di suo solito anche in passato, nel recarmi in dono il suo ultimo lavoro letterario. Col sorriso scanzonato che contraddistingue il suo eloquio, ha spacchettato una copia dei suoi “Petali, che passione!” e me l’ha posata sul tavolo perché a mio comodo la leggessi – cosa che ho promesso e fatto di lì a poco.
Mi ha detto, nel suo breve intrattenersi, che questo libro, caparbiamente voluto nonostante l’indifferenza generale, ha visto la luce dopo breve eppur matura gestazione, redatto in piccola tiratura autofinanziata per l’appagamento dei suoi estimatori. Poi, con una punta di rassegnata mestizia, ha lamentato che il suo lavoro non ha avuto in paese (chissà perché!) nemmeno l’onore di una presentazione ufficiale. Ha capito solo dopo, al vedermi contrariato, che da noi gli interessi dell’intellighenzia locale attualmente sono altri, ben lontani da ogni speculazione letteraria, in palese contrasto con chi, per scelta o vocazione, si predispone a creare qualcosa di utile sul piano educativo e istruttivo mettendoci pure la faccia!
Le sue ultime parole – devo dirlo? – mi hanno segnato profondamente causandomi non poca amarezza. Tanto è bastato, però, a spingermi a scrivere qualcosa in merito, come sto facendo, convinto che questo libro merita ben più di quanto io possa modestamente dire tra queste righe. Perché quest’opera, davvero, vale molto! Essa, concepita come “consuntivo della propria esperienza umana, culturale e professionale” è uno zibaldone, una “miscellanea di scritti vari” dove “vi troverete un po’ di tutto”: insomma “un contenitore, un cassetto, dove conservare…scritti ritenuti…interessanti e…utili per il lettore”.
A voler leggere, vi troviamo un corpus alquanto eterogeneo composto di poesia intimistica, articoli giornalistici, saggi brevi (pregevoli quelli che ineriscono alcune nostre nobili figure cittadine) e, ancora, esperienze didattiche, recensioni, ricerche su temi inediti di storia locale, o su svariati toponimi siculi, ecc…. In una parola, come dice l’Autore stesso, “pensieri in libertà, ovvero riflessioni serotine sulla propria esperienza, ora che “forse è il momento di tirare i remi in barca” essendo giunta, con l’età pensionabile, l’occasione per rivedere con animo distaccato eppur critico almeno i contorni del proprio vissuto.
Data la molteplicità delle cose scritte – avvincenti quelle in chiave poetica – l’Autore, forse per eccesso di modestia, ma più sicuramente per il timore, malgrado l’impiego di un lessico semplice, di non riuscire a coinvolgere adeguatamente il suo potenziale lettore, ha parlato di “caos letterario”.
Eppure, sembra invece smentirsi di lì a poco laddove egli scrive che questo suo zibaldone (sicuramente post-litteram se consideriamo l’epoca in cui è uscito e il pubblico cui si rivolge) è stato scientemente “regolato e inquadrato in una cornice ben studiata…sfruttando la metafora della rosa formata da tanti petali”.
La natura e l’intensità delle argomentazioni esposte non possono che esaltare il valore della metafora prescelta! Come in una rosa profumata ogni petalo si distingue per estensione e soavità di aromi e conquista qualunque anima di alto sentire nel suo accostarvisi, così, presi ad uno ad uno, i temi affrontati nello stesso momento in cui si affacciano alla mente di chi, alieno da ogni chiassoso baccanale plebeo, riesce a mantenere ancora con immutata coerenza una percezione netta dei valori del proprio passato pur senza, con ciò, estraniarsi dal presente.
A mio modo di vedere, “Petali, che passione!” è senz’altro il libro più bello scritto finora da Alfio Bisicchia. Egli ha temuto a torto di apparire disorganico e caotico: in realtà, il suo lavoro è pregevole soprattutto per l’unità d’intenti con cui ad arte è stato concepito, in specie quando ricorda al cittadino comune che l’umano vivere non è fatto solamente del mangiare e del bere o delle fugaci euforie di un momento di gioia, né delle fatiche e delle noie di una giornata pesante: cose che, per quanto inevitabili e necessarie, rendono comunque uggiosa l’esistenza.
Nel grande giogo della vita e della morte tra cui l’uomo è costretto a passare, come in antico i soldati sconfitti, rimane sempre – ci dice – qualcosa da difendere: l’irrinunciabile dignità di essersi fermati per strada a ripercorrere con gli occhi e con la mente il panorama della propria esistenza e sedersi a pensare, a far tesoro dell’esperienza di chi, essendo stato più grande di noi, ci ha lasciato un’eredità da godere e, soprattutto, qualcosa da meditare e imparare a conoscere. Tutto ciò, per chi non l’avesse ancora capito, si riassume nella parola cultura, quella in nome della quale il nostro Autore ha voluto sensibilizzare tutti noi a che ci rendiamo effettivi padroni del nostro tempo e della nostra ragione di vivere.
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Cultura
La “volta” ritrovata: l’arcivescovo “svela” gli affreschi settecenteschi restaurati
Prezioso patrimonio di Biancavilla: nella chiesa dell’Annunziata risplendono le opere di Giuseppe Tamo

Un’opera restituita alla luce, memoria risvegliata, un segno di bellezza che attraversa il tempo: così Biancavilla ha accolto la presentazione ufficiale del restauro degli affreschi della Chiesa dell’Annunziata.
La cerimonia si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, seguita dalla conferenza di presentazione dei lavori della volta: un’opera ora visibilmente più luminosa, liberata dalla patina del tempo, da ritocchi dissonanti e dai cedimenti che avevano compromesso la sua integrità visiva e strutturale.
Un gioiello dentro uno scrigno
A introdurre e presentare l’incontro Dino Laudani, presidente della Confederazione diocesana delle confraternite, che ha ricordato come la Chiesa dell’Annunziata – autentico monumento cittadino – sia stata oggetto, negli ultimi decenni, di molteplici interventi conservativi. «Un gioiello dentro uno scrigno di fede e di arte», ha detto Laudani, sottolineando la continuità di un impegno collettivo nel custodire la bellezza.
Il parroco, don Giosuè Messina, ha ricostruito le origini dell’attuale restauro: «Tutto è iniziato nell’ottobre 2021. Dopo una pioggia battente, della polvere iniziò a cadere da una fessura, aperta dal terremoto del 2018. Fu un segnale. Da lì, con prudenza e speranza, partì il lungo iter verso il restauro». Un cammino reso possibile dal lascito testamentario della signora Maria Zammataro (39mila euro), dai 10mila euro di residui del fondo messo a disposizione della parrocchia da padre Placido Brancato (per quasi cinquant’anni parroco) e dalla generosità dei fedeli (poco più di 4mila euro). Il preventivo iniziale di 73.800 euro è salito a 82mila, coperto in gran parte da questi fondi.
Il sindaco Antonio Bonanno, presente all’incontro, ha annunciato lo stanziamento di 20.000 euro da parte del Comune per contribuire al saldo delle spese residue per un’opera che valorizza e impreziosisce la nostra città.

Una storia mai del tutto scritta
Il professor Antonio Mursia ha arricchito la conferenza con un’ampia contestualizzazione storica. Un documento del 1872 del Prefetto di Catania chiedeva una copia dell’atto di fondazione della chiesa: ma nemmeno allora, il prevosto fu in grado di fornirne una. Solo agli inizi del Novecento, lo storico Placido Bucolo riesce a ricostruire la storia della chiesa. A volerne la costruzione fu alla fine del Cinquecento Dimitri Lu Iocu, giurato della Terra di Biancavilla: un’iniziativa non solo religiosa, ma anche civile e politica. Nel 1714, grazie a un lascito di Maria Carace, si avviò l’ampliamento della chiesa, su progetto del magister Longobardus, figura di spicco nella progettazione ecclesiastica della diocesi.
Il restauratore: «Sobrietà e impatto visivo»
Il momento più tecnico dell’incontro è stato l’intervento del restauratore Giuseppe Calvagna. Gli affreschi della volta, realizzati nel Settecento da Giuseppe Tamo, erano stati eseguiti con la tecnica della pittura a secco, scelta versatile ma fragile nel tempo. Le infiltrazioni d’acqua, i terremoti e restauri maldestri effettuati tra Ottocento e Novecento – alcuni con latte di calce – avevano offuscato l’opera originale, coprendone i tratti e minacciandone la stabilità.
Il lavoro di restauro ha richiesto interventi strutturali complessi: consolidamento dell’intonaco con resine, fissaggio del colore per fermarne il distacco, rimozione di croste dure e sedimentazioni. Si è poi proceduto alla ricostruzione morfologica delle lacune e infine alla reintegrazione pittorica con colori ad acquerello, rispettando le tecniche conservative. «In alcune parti non abbiamo trovato tracce originarie – ha spiegato Calvagna – ma l’obiettivo è stato restituire leggibilità e armonia. Il risultato è un’opera sobria, equilibrata e di forte impatto visivo».
L’architetto Antonio Caruso, che ha diretto e mediato tra i diversi professionisti coinvolti, ha posto l’accento sull’importanza della manutenzione ordinaria. «Le opere architettoniche e decorative non sono eterne: richiedono attenzione costante, altrimenti rischiano danni irreversibili».
Il vescovo: «Immagini che toccano il cuore»
A chiudere, l’intervento dell’Arcivescovo Renna, che ha dato al restauro un significato teologico profondo: «Queste immagini non sono semplici rappresentazioni. Esse raccontano la fede: dalle antiche profezie che parlano di Maria, fino agli Evangelisti, immagini mariane e cristologiche che ci introducono al mistero della salvezza e che parlano fino ai nostri giorni restituendoci significati profondi. Come la simbologia dei fiori e della natura che fiorisce, segno più bello della redenzione dell’uomo. Nel ciclo possiamo trovare patristica, teologia, dogmatica, in un racconto che tocca ancora oggi il cuore dei fedeli.
Oggi, tra le volte luminose dell’Annunziata, quegli affreschi sembrano custodire una memoria silenziosa. Non parlano solo del passato, ma anche del presente e del futuro. Restano lì, tra luce e ombra, a ricordarci che ogni bellezza custodita è anche una forma di resistenza – contro l’oblio, contro il tempo, contro l’indifferenza.
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FOCUS
Cultura
Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati
Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.
Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.
“U Signuri” e i quartieri in festa
In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.
Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.
Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.
Gli altarini con le lenzuala bianche
Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.
Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.
Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati
Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.
Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.
Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.
Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.
Tradizione che si rinnova
Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.
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