Detto tra blog
Dall’uso dell’Icona alle processioni: dilemma tra presenzialismo e fede
Devo riconoscere che l’intervento di Maria Rita Sangiorgio offre tanti spunti di riflessione su aspetti che ritengo siano fondamentali per la nostra esistenza, soprattutto per chi, come me, si dichiara cristiano cattolico, credente e praticante. Sarebbe lungo indicare le varie tematiche inerenti tale impegnativo auto riconoscersi in Gesù Cristo né il luogo deputato a trattarle può essere un blog.
Tuttavia la questione affrontata dalla Sangiorgio sull’utilizzazione dell’icona della Madonna dell’Elemosina è dirimente, poiché pone il problema della scelta fra una religiosità presenzialista, formale, folcloristica e una religiosità intimistica, vissuta senza clamori.
Penso che la tradizione è bene continuarla e curarla ma senza esagerazioni, segnandolo bene il confine tra forma e sostanza, poiché ancora molti sono coloro che affermano d’essere buoni cristiani in ragione dell’appartenenza ad una confraternita e all’aver cura della cappa o della mantellina; ancora molti pensano che si è più vicini a Dio perché hai la mozzetta o indossi lo scapolare o il cingolo che ti distingue e ti rende orgoglioso dell’appartenenza al gruppo che porta il fercolo di Gesù, dell’Angelo o della Madonna.
Quale aiuto può dare tale attivismo per una fede cristiana autenticamente vissuta? Fino a che punto il fervore delle varie confraternite che si esaurisce nella processione dei Misteri nella settimana di Pasqua rivela volontà e impegno nell’affermare comportamenti coerenti col messaggio evangelico? O forse tutto si riduce a un vuoto formalismo religioso, a una gara ad essere in prima fila per far notare che contiamo qualcosa nell’organizzazione religiosa della parrocchia o della diocesi?
Certo, ha un suo valore continuare le tradizioni che nel caso in ispecie rimandano al Medioevo quando le confraternite intervenivano con opere caritatevoli, curando gli ammalati, confortando i moribondi o accompagnando nei funerali i confratelli. Oggi credo che il Vangelo ci chiami ad abbandonare un individualismo diventato maniacale e sottilmente ipocrita che spinge molti a comportamenti infantili e superficiali.
L’essere cristiani dovrebbe comportare un impegno continuo per adeguare il proprio stile di vita ai valori che Gesù ci ha indicato, praticando la carità cristiana con l’accoglienza degli immigrati e con progetti di integrazione nel tessuto socio economico nazionale; con il rispetto della legge sempre, dando “a Cesare quel che è di Cesare” e per cui il cristiano non sfrutterà i lavoratori sottopagandoli e non evaderà le tasse; non sarà comprensivo con i potenti e inflessibile con i più deboli; il cristiano non diventerà un attivista politico per poter conseguire vantaggi personali o per vanagloria ma per servire la comunità d’appartenenza.
Egli dovrebbe avere rispetto per tutti coloro che comunemente si considerano “diversi”; e dovrebbe sempre difendere la libertà in tutte le sue possibili declinazioni individuando le minacce provenienti da piccoli Cesari esperti nel cogliere gli umori, i desideri, le ansie del popolo, per poi mortificare tutte le potenzialità e le idealità, i talenti che ciascuno possiede.
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Detto tra blog
Mafia a Biancavilla, quei fallimenti educativi al di là della cronaca
Il processo “Ultimo atto” e gli spunti di riflessione sui “buoni” e i “cattivi” che vivono a fianco
Una comunità di persone vive anche di queste informazioni, ossia illustrare le attività investigative delle proprie agenzie di controllo. «Blitz “Ultimo atto”, la Procura chiede 125 anni di carcere per 13 imputati», è l’articolo con cui Biancavilla Oggi ci aggiorna sul «rito abbreviato per Pippo Mancari “u pipi” e i suoi picciotti, accusati di mafia, droga ed estorsioni». Normalmente è così: si parla dell’organo che ha indagato, del reato, possibilmente con le ipotesi del guadagno illecito, le attività criminose, i comportamenti, le vittime, spesso senza nome, o soltanto alcune di quelle che in realtà hanno subito. Poi si passa ai criminali, le facce, gli anni di galera previsti, l’attesa del giudizio. Tutto in una sequenza che sembra esaustiva e completa. Poi vedremo le condanne, la sentenza, l’appello, etc.
Questo ci basta? Ci basta questo per sentirci a posto come cittadini? Sembra di assistere ad un canovaccio uguale e distante da noi, anche se stiamo parlando di persone e gente che incontriamo ogni giorno. Mi chiedo: questa operazione di polizia e la sua divulgazione ci bastano per la nostra idea di comunità? Non c’è forse un tratto di vita tra carnefici e vittime che ci potrebbe interessare di più? La frattura al contratto sociale si ricompone da sola? Mi chiedo. Loro sono i cattivi, o quelli che hanno sbagliato – e si vede dalle facce – e noi siamo i buoni? È proprio così?
In realtà nelle strade e nelle piazze siamo lì, insieme, ognuno per la propria vita, ma tutti accanto l’uno all’altro. Questo tipo di notizie, che diventano solo cronaca, non sono fin troppo indifferenti alla vita di chi ha sbagliato e di chi ha subito il torto.
Come possiamo fare per capire ciò che potremmo fare in termini comunitari? Perché si continua a chiedere il pizzo e si continua a spacciare, nonostante le pene previste? Parlo ovviamente in termini generali e non su questo caso specifico.
Io penso che dove si commette un reato di questa portata, qualcosa non ha funzionato anche prima ed anche in tutti noi. In questa comunità di persone c’è stato un fallimento. Reati del genere coinvolgono molte più persone, atteggiamenti, comportamenti, amicizie, conoscenze. Un mare di persone. E molto tempo prima ha lasciato che le cose sfuggissero di mano. Reati del genere parlano di fallimenti educativi in primis, poi di tante altre cose. C’è il momento della condanna, dopo le indagini, ma il momento per comprendere come siamo arrivati, un’altra volta a queste situazioni quando? Quando comprenderemo di quali passaggi è fatto un percorso di comunità in questa direzione?
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