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Il sisma e il riscatto di San Zenone: «Chiesa di persone, non di mattoni»

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Ananke è un termine greco che significa “Fato”, “Destino” o “Necessità”. Da questi concetti le popolazioni elleniche trassero l’immagine sfumata di una divinità primigenia, simile a quelle corrispondenti ai principali elementi della natura come l’Acqua, la Terra, o il Tempo. Come questi elementi, anche la percezione che le cose accadano secondo un volere preciso si configura da sempre come una forza sovrannaturale, tanto è radicata in noi. Una percezione che assolve, allo stesso tempo, a due fondamentali obiettivi: “spiegarci” l’inspiegabile e deresponsabilizzarci. Se non dipende da noi, infatti, perché sentirci chiamati in causa?

Queste riflessioni mi ritornano alla mente per un proverbio che, all’indomani del terremoto, ho udito pronunciare a molti anziani, col viso serafico di chi ha superato certe ansie o conflitti interiori: U signuri, unni ni voli ni avi. Eccolo ritornare, quel Fato cieco, capriccioso, incontrollabile e, soprattutto, non provvidenziale. L’aspetto etico è infatti irrilevante. Esiste un ordine per ciascuno di noi, indipendentemente dai meriti o dalle colpe. A nulla servono le case antisismiche, i piani di evacuazione, gli affanni e gli allarmismi. Il Fato, che in questo caso veste i panni della “Montagna”, procederà indisturbato nelle sue macchinazioni.

A questo atteggiamento di serena e implacabile rassegnazione, si è da secoli affiancato quello reattivo di chi non si dà pace, di chi pensa che il Fato, anche se capriccioso e inflessibile, bisogna pur cercarlo di contenere: non possiamo certo lasciargli campo aperto. Ed ecco apparire nell’Olimpo le divinità apollinee. Le vediamo portare luce e speranza, soppiantando o ridimensionando quelle implacabili forze primigenie.

Oggi, pur avendo rigettato il politeismo dei pagani, gli uomini soffrono ancora per la loro fragilità, ed ogni evento avverso risveglia paure ataviche. Paure così insormontabili da rendere indispensabile l’intercessione di un deus ex machina che le sorregga, un eroe, un protettore, un santo patrono.

A questo proposito, ho avuto l’impressione che il violento terremoto che ha colpito Biancavilla abbia scosso non soltanto la terra ma anche, se così possiamo dire, le “gerarchie” dei santi biancavillesi. In particolare, San Zenone, il santo più chiacchierato di questi giorni, è a pieno titolo rientrato nel trittico dei patroni. Cerchiamo di capire come, e soprattutto perché.

Zenone è segno del nostro passato ortodosso, come sappiamo. Fu ben presto soppiantato da Placido, monaco benedettino, ben in vista alle gerarchie ecclesiastiche del tempo, e più consono alla popolazione biancavillese rapidamente “latinizzatasi” con le migrazioni dai centri vicini.

San Zenone era rientrato timidamente nell’Empireo biancavillese da pochi anni. Dal 2008, infatti, è portato in processione durante le festività di San Placido. Il 2018 sarebbe stato il decimo anno dalla ripresa di questa tradizione ma, sarà per la scarsa popolarità di cui ha goduto nei secoli trascorsi, sarà che Zenone era un guerriero, e per di più mediorientale, o sarà per la forte concorrenza esercitata da San Placido e dalla Madonna dell’Elemosina – entrambi veneratissimi in paese – fatto sta che per questo 2018 non è stato possibile assistere alla sua processione.

Nel frattempo, i fedeli di San Placido e della Madonna si mostrano indefessi ed instancabili nel loro servizio, così ciecamente fieri ciascuno del proprio santo da non temere rivalità, invidie o frecciatine, al punto tale che nella stessa Chiesa Madre pare alberghi una piccola “lotta” intestina.

Chiesa Madre che, nel frattempo, si è fatta ogni giorno più bella nel volgere di pochi anni, con lifting e maquillage che l’hanno rimessa a lucido, inorgogliendo gli artefici del restauro, pur facendo storcere qua e là qualche bocca e inducendo a pronunciare, in maniera sommessa s’intende, l’accusa di vanagloria.

Ma il povero San Zenone era sempre lì, nella sua piccola nicchia, reggendo delicatamente la sua spada, quasi sfiorandola. Chissà quali pensieri formulava in solitudine mentre sentiva echeggiare il trambusto lontano della gente in festa.

E’ così che già nella notte tra il 5 e il 6 ottobre, che tanto ha piegato il paese e “sfigurato il volto” della nostra Chiesa Madre (come dirà Padre Pino), un pensiero – dapprima inconfessato – inizia a serpeggiare fra la gente: San Zenone si è vendicato! Si vindicau ca no ficimu nesciri!

Ma com’è stato possibile? Lui, da sempre così pacifico e solitario, avrebbe impugnato improvvisamente la sua arma con entrambe le mani, e l’avrebbe indirizzata furiosamente su di noi?

Ridicole superstizioni, ci si risponde, retaggi medioevali da correggere ed emendare. Eppure, certi tarli serpeggiano di bocca in bocca quasi senza farsi sentire, come brezze leggere. Al punto tale che la sera successiva, di fronte alla comunità riunita nel momento di preghiera, lo stesso prevosto ha rimbalzato la diceria, per smentirla naturalmente. Smentita, si, ma davanti a San Zenone, stavolta esposto a pari rango con i suoi più blasonati “colleghi”. In certi casi, davvero la prudenza non è mai troppa.

Il discorso che è seguito ha puntato su diversi elementi: la comunità, la sicurezza, le periferie, perfino i migranti. Ma due punti, a mio avviso, sono stati quelli salienti: l’invito ad essere uniti, perché “i santi non lottano fra loro” (ma le persone semmai, mi sento di aggiungere); e l’invito a ricordarci (tutti) che la Chiesa è e deve essere “chiesa di persone, non di mattoni”, riprendendo un lontano adagio del passato.

Ora, un terremoto è per definizione evento che distrugge, che scompiglia, che porta disordine e caos. Ma la crisi che genera, com’è desumibile dalla stessa etimologia della parola crisi (decisione, scelta), si configura come un momento ottimale per chiarire e pacificare conflitti covati da tempo.

Così, del tutto inaspettatamente, agendo come “giustiziere”, San Zenone sembra essersi ritagliato un posto di primissimo piano nel nostro Comune, dopo lunghi secoli di inattività.

Catalizzando sensi di colpa, rancori e malumori, portando alla deflagrazione certi “non detti” sommersi, ha permesso di ricomporre – o almeno tentare di ricomporre – un nuovo equilibrio.

È così che la Storia, ai piedi di questo turbolento Vulcano, continua a scriversi con un intreccio meraviglioso e incredibile di colori e inchiostri, dove il mito e la verità si perdono l’uno nell’altro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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4 Comments

4 Comments

  1. Foti Antonio

    25 Ottobre 2018 at 22:01

    Tutte le pomposità ecclesiali che abbiamo visto negli anni passati, inutili e distanti anni luce dalla vera fede, era ora che finissero. Ci doveva essere il terremoto…? Gli stucchi si sbriciolano e le infiorate appassiscono. Meglio curare anima e umanità. I preti facciano i preti, non i custodi di museo. Complimenti Riccardo Ricceri.

  2. Fabry

    25 Ottobre 2018 at 21:58

    Condivido l’articolo. Certi gruppetti settari dovrebbero meditare a lungo.

  3. Alfredo Ricceri.

    25 Ottobre 2018 at 21:47

    Una sottile ironia che suona come una sferzata, che dovrebbe servire a risvegliare certe menti e a fare rinsaldare i rapporti sociali nella nostra comunità, almeno questo è l’augurio. Bravo, bellissimo articolo.

  4. Alfio Pelleriti

    25 Ottobre 2018 at 18:14

    Esercitare la ragione è sempre un arricchimento per una fede in Dio consapevole, coerente con il messaggio evangelico e pronta a cogliere tutti i molteplici aspetti e le infinite bellezze della realtà.
    Bravo. Complimenti!
    Alfio Pelleriti

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Il centro anti-violenza Calypso e quei politicanti che volevano “sporcarlo”

Oggi tanti eventi ipocriti ma io sarò in Tribunale per una donna di Biancavilla, vittima di maltrattamenti

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Nel 2012, unitamente a due psicologhe di Catania fondavo l’Associazione Antiviolenza e Antistalking Calypso, la cui sede era ed è a Biancavilla. Ricordo che Sonya, Laura (questi i nomi delle due psicologhe) ed io eravamo spinte da forte motivazione, spirito di solidarietà e di aiuto a donne e bambini, vittime di violenza di genere. Ricordo l’inaugurazione dell’associazione, a Villa delle Favare, nel marzo del 2013. Ricordo l’attenzione che Calypso ha ingenerato nei politicanti di tutti gli schieramenti. Era di certo un bel bocconcino da strumentalizzare a proprio uso e consumo, ma avevano fatto i conti senza l’oste.

Eh sì, perché l’oste, cioè io, non ha mai consentito alcuna strumentalizzazione e non si è mai piegata ai vari avvicinamenti e alle tante promesse che le venivano dispensate con il solo fine di recuperare qualche voto all’interno dell’associazione. Che delusione, però, quando hanno capito che la maggior parte delle associate non era residente a Biancavilla e che quindi non aveva alcun significato politico alle elezioni locali. Che delusione quando hanno capito che l’associazione era autentica e per nulla interessata ai favori dei politici, ops, politicanti.

Noi volevamo solo una sede idonea ad accogliere le donne vittime di violenza. Non volevamo soldi, non volevamo incarichi. Nulla, se non mettere in campo la nostra professionalità per aiutare le donne vittime di quella violenza e di quel maschilismo che, vuoi o non vuoi, imperano e che in alcune forme sono così sottili, tanto da non essere riconosciuti e che, purtroppo, provengono anche dalle donne.

Cominciamo dalla lingua italiana

Questa è la verità e io la dico. Quelle donne, per esempio, a cui va bene che la cameriera sia chiamata cameriera, idem la segretaria, idem l’infermiera. Ma si rifiutano di essere chiamate avvocata, sindaca, assessora, la presidente e così via. Ciò in barba all’Accademia della Crusca e all’utilizzo della lingua italiana in forma corretta. E la motivazione a sostegno di tale rifiuto qual è? “Avvocata, magistrata, architetta…. non si può sentire”. Invece cameriera si può sentire. Se non è discriminazione questa (nei confronti delle cameriere e di tutte le donne), non so cos’altro lo sia.

Ho sempre pensato che la competizione tra donne e la mancanza di solidarietà di cui veniamo accusate sia frutto della mentalità maschilista e patriarcale da cui tutti (uomini e donne) siamo imbevuti sin da bambini. Ma più vedo e sento donne che si ribellano all’utilizzo corretto della lingua italiana, espressione di una giusta evoluzione non solo della lingua ma anche e soprattutto della società e della mentalità, e più faccio fatica a comprendere dove stia l’inghippo. Sulla mia carta di identità c’è scritto “avvocata”. Io l’ho chiesto, seppur abbia raccolto l’iniziale perplessità di alcuni dipendenti dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Biancavilla, anche donne, ovviamente.

I “compitini” di Biancavilla e il calendario del perbenismo

D’altro canto, a Biancavilla come in tanti altri comuni (tutti?), i “compitini” sono corretti. Quote rosa rispettate, perché imposte dalla legge, altrimenti con il cavolo. Anche perché si sono resi conti che “questa cosa” delle quote rosa e del doppio voto uomo/donna è un ottimo strumento per duplicare i propri voti (degli uomini, ovviamente). E poi: assessore (plurale di assessora) alle Pari opportunità, rigorosamente donne perché le pari opportunità sono affari che riguardano solo le donne. E ancora: panchine rosse, scarpette rosse, scolaresche riunite in piazza il 25 novembre e l’8 marzo, alla presenza per lo più di donne.

A mia memoria, ai vari eventi imposti dal calendario del perbenismo, salvo qualche eccezione, i sindaci e gli assessori (uomini) non hanno mai partecipato. O in alcuni casi hanno fatto brevi apparizioni perché impegnati in affari ben più importanti rispetto ad iniziative ritenute forse affarucci da femminucce. D’altro canto, gli uomini si occupano di cose serie, mica di panchine e scolaresche.

Calypso, realtà preziosa e onesta

Comprendo che sarebbe più popolare scrivere che tutto vada bene e che sono tutti belli e bravi. Io, però, sono ormai disillusa dal paese in cui pensavo di investire professionalmente e umanamente. E donare ad esso il mio entusiasmo e i miei valori di uguaglianza, parità e solidarietà verso il prossimo. Mi sono enormemente rotta le scatole, perché allinearmi non è nel mio “mood”, come direbbero i ragazzi di oggi.

Tutto ciò non solo a Biancavilla, ma Biancavilla è certamente colpevole di non avere accolto una realtà preziosa, onesta e autentica quale è Calypso. Perché? Perché la sua presidente (la presidente e non il presidente) che sono io, ha notoriamente la lingua troppo lunga.

Indimenticabile quando nel 2013 una persona vicina all’attuale sindaco (all’epoca non ancora sindaco e che, peraltro, io sostenevo, sbagliando) mi disse che ero troppo scomoda e che «non avrei fatto strada in politica». In effetti, così è stato perché sono fuggita a gambe levate. Altrettanto indimenticabile quando un sindaco ricandidato di un colore diverso di quello sopra nominato si è permesso di strumentalizzare il mio nome e indirettamente quello della mia associazione durante un comizio. Mi costrinse a prendere parola e a dire che nel capodanno precedente, quando una ragazza di Biancavilla era stata sequestrata dal suo convivente, io ero in piena operatività insieme alla famiglia e ai carabinieri, mentre lui era a casa a mangiare le lenticchie.

Certa politica sporca tutto

Ma si sa, certa politica sporca tutto. Calypso, però, non l’ho fatta sporcare. Meglio rimanere una piccola realtà autogestita e autofinanziata che impelagarsi con schifezze varie. Tante belle parole ma nulla di concreto a Biancavilla. Città che, essendo in buona compagnia, probabilmente si autoassolve dalle responsabilità che incombono sulla sua testa e su quella dei suoi capoccioni.

Oggi, 25 novembre, io non parteciperò ad alcun evento, così come ormai faccio da anni. Sarò in Tribunale a discutere il processo di una donna di Biancavilla. Una donna che, se non avesse trovato il sostegno dei figli e del genero e, senza volere fare autoreferenzialità, della sottoscritta, forse sarebbe stata uccisa.

Gli altri, anzi, le altre, le cosiddette assessore (plurale di assessora) che si firmano “assessore” (al singolare), perché non hanno la consapevolezza che, in questo caso, la forma è sostanza o se ne hanno la consapevolezza non hanno il coraggio di sostenere il cambiamento, si lavino le coscienze con le panchine rosse e con le scarpette rosse e con le cazzate demagogiche da cui i nostri ragazzi vengono riempiti da adulti ciechi rispetto alle responsabilità di una società sempre più violenta (basti bazzicare i social).

Panchine e scarpette rosse come il sangue delle donne uccise per mano degli uomini violenti e per mano di una società fatta di uomini e donne complici. Rosse come la carne dei bambini vittime di violenza diretta e assistita, compresa quella delle false denunce, fenomeno dilagante e sempre più preoccupante che vede vittime uomini e bambini.

Femminismo non è fanatismo

Per onestà intellettuale si deve dire anche questo e si deve parlare anche di questo perché strumentalizzare le denunce, anche coinvolgendo i bambini, per scopi vendicativi ed economici null’altro è che violenza. Ed è un oltraggio nei confronti delle donne che davvero sono vittime di violenza, oltre a costituire un oneroso dispendio economico per lo Stato.

Ringrazio Biancavilla Oggi e il suo femminismo che dà speranza a un paese cieco e muto. Cecità e mutismo che, è utile ribadirlo sempre, ho provato sulla mia pelle quando ho subito la violenta rapina in pieno centro e in pieno giorno, nota a tutti, evento rispetto al quale, a parte questo giornale e il suo direttore Vittorio Fiorenza, tanti, tanti, tanti, ma davvero tanti, mi mostrano solidarietà e complicità dietro il sipario, perché farlo sul palcoscenico… “chi me lo fa fare?”.

Eh va beh… se lo specchio non si rompe quando vi guardate la mattina evidentemente è ipocrita e pusillanime quanto voi. A proposito, femminismo non è sinonimo di fanatismo e non è neanche sinonimo di odio nei confronti degli uomini ma magari ne parleremo un’altra volta. Buon 25 novembre, buona lavata di coscienza a tutti.

*Presidente del cento Calypso – Biancavilla

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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