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Pasqua a Biancavilla, il maestro Leone presenta il book di Symmachia

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Il volume è curato da Vincenzo Ventura e raccoglie le immagini dei concorsi promossi dall’associazione nel 2011 e nel 2012 con la partecipazione di tanti appassionati.

 

“Pasqua tra la gente dell’Etna: i riti di Biancavilla”. È il titolo del book fotografico curato dal giornalista Vincenzo Ventura dell’associazione Symmachia e stampato per il Gal Etna dalle “Edizioni Officine Grafiche”.

Una raccolta di immagini che vede decine di scatti realizzati in occasione delle due edizioni del concorso fotografico 2011 e 2012 che hanno richiamato una sorprendente partecipazione di appassionati di fotografia, giunti da diverse parti della Sicilia.

La presentazione è fissata per lunedì 21 marzo, alle ore 18.30, nella chiesa del Rosario. Sarà presente il maestro Giuseppe Leone, il fotografo noto per le sue pubblicazioni e apprezzato anche da Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia. Con Leone, anche il critico fotografico Pippo Pappalardo e il prof. Maurizio Zignale, esperto di cineturismo e docente all’Università di Catania.

«I fotografi sono stati narratori di uno dei momenti più attesi dalla collettività –spiega Vincenzo Ventura– sfogliando il book fotografico, si potranno cogliere i vari aspetti della festa, la spettacolarità dei riti, ma pure parenti, amici, riuscendo a cogliere i segni dei sentimenti della comunità».

All’incontro, moderato da Dino Laudani, responsabile di segreteria del Gal Etna, interverranno il sindaco Giuseppe Glorioso, il responsabile dell’Ufficio di Piano Gal, Ernesto Del Campo, e il presidente di Symmachia, Angela Anzalone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via

Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee

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Lavoratori nelle campagne di Biancavilla © Foto Nero su Bianco Edizioni

Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.

A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.

Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc.  Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.

La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:

… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura? 

In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):

Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.

E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):

E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»

Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):

Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.

Poi con Uno sbirro femmina (2007):

«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare   proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».

E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):

La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!

Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):

Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.

E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):

«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.

Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140.  Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):

Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.

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