Cultura
Quel volto della Madre dell’Elemosina nel libro di Sebastiano Aglieco


Il poeta siracusano è tra i più apprezzati in Italia: «La scelta dell’immagine è dell’editore in quanto il volume parla della madre, ma affronta anche il tema del pellegrinaggio».
di Antonio Lanza
È un libro che per ampi tratti affronta il tema della madre, questo “Compitu re vivi” (Il dovere dei vivi) del siracusano Sebastiano Aglieco che, come a volte accade quando un poeta si trova a dover scendere nel buio di un sentimento così ancestrale e complesso, decide di usare la lingua più prossima alla sfera degli affetti: il siciliano. Questa scelta assume ancora più rilevanza e significato per un poeta come Aglieco che ha lasciato la Sicilia e la sua Sortino a ventiquattro anni, nel 1985, per Monza, città «dove non ha messo mai radici».
A questo punto il lettore si starà chiedendo il motivo per cui un articolo che parla del libro di poesie di un poeta siracusano venga pubblicato su una testata, Biancavilla Oggi, che di Biancavilla, appunto, esclusivamente si occupa. Il motivo risiede nella felice scelta dell’Editore, ‘Il ponte del sale’ di Rovigo, di inserire in copertina l’immagine del volto di una donna dall’espressione dolce e intensa accompagnata da quella del figlio, che compie una leggera torsione del collo per appoggiare la propria guancia a quella della madre. Uno straordinario gesto di amore che per un biancavillese non è difficile riconoscere, nonostante l’immagine sia stata oggetto di una rielaborazione grafica. Si tratta della Madonna dell’Elemosina venerata a Biancavilla da più di mezzo millennio. Una nota in terza di copertina recita infatti: «Madonna col bambino, da icona bizantina, XV sec., Biancavilla».
Non bisogna certo essere degli antropologi per intuire il valore simbolico che l’Editore, operando questa scelta, assegna alla nostra Madonna, quello cioè della Madre per eccellenza. Non è un caso che la Madonna dell’Elemosina venga chiamata tra i biancavillesi ‘Bedda Matri’, e il tema materno e, di riflesso, quello della condizione di essere figlio, come detto, siano i temi dominanti del libro di Aglieco, uno dei poeti contemporanei più apprezzati in Italia.
“Compitu re vivi” è un libro in cui «aleggia un’aura tragica e sacrale», un libro scritto nella lingua dell’infanzia, l’unica capace di recuperare sentimenti, persone, eventi familiari di un passato sepolto, l’unico strumento, il dialetto, capace di fare i conti con il dolore della perdita della madre rappresentata dal poeta allo stesso tempo nella sua dimensione umana e divina. E l’attento lettore non può non vedere condensate entrambe le componenti, l’umana e la divina appunto, nella magnifica immagine di copertina.
Raggiunto attraverso il potente mezzo di Facebook (che se un aspetto positivo ha, è certamente quello di accorciare le distanze e rendere i rapporti più facili e immediati, compreso quelli tra lettori e poeti), Sebastiano Aglieco ci conferma: «La scelta dell’immagine è dell’editore, in quanto il libro parla della madre, ma affronta anche il tema del pellegrinaggio. Quello alla Madonnina delle Lacrime a Siracusa, e l’altro a San Sebastiano di Melilli. Non sapevo si trattasse dell’icona venerata a Biancavilla ma, qualche mese fa, me lo fece notare un ragazzo di Biancavilla che avevo tra i miei contatti». Non sappiamo chi sia questo anonimo, e attento, osservatore biancavillese, ma quello che ci sentiamo di dire è che non è vero che la Poesia, di cui oggi si festeggia la Giornata mondiale, abbia così pochi appassionati.
A “Compitu re vivi” di Aglieco (che adesso vive e lavora a Milano, città non estranea alla poesia e, forse, dall’autore più amata rispetto a Monza) sono già stati assegnati diversi premi, tra cui il ‘Premio Selezione Ceppo Pistoia 2015” e il Premio ‘Salvo Basso 2014’, portando così un po’ di Biancavilla nell’eccellenza della poesia contemporanea.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Cultura
Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”
Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada




Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.
Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.
In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.
Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:
Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!
Toponimo in zona Vigne
Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.
Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.
Alle origini del termine
Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica: a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.
Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.
Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!
Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.
Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:
Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchio, dispensa consigli, cura malattie.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
-
Cronaca2 mesi fa
Sequestrati 20 kg di pesce ad un ristorante di sushi di Biancavilla
-
Cronaca2 mesi fa
Video e foto hard di due donne di Biancavilla: in 4 finiscono a processo
-
Politica1 settimana fa
Tutti i voti delle 9 liste e dei 144 candidati al Consiglio Comunale
-
Politica1 settimana fa
Ecco i 16 consiglieri eletti, ripartizione choc: soltanto 1 va all’opposizione