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Gli scorci “cubisti” di Biancavilla nelle opere di Toti Ardizzone, pittore naif

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L’artista biancavillese ha all’attivo importanti mostre. Per la prima volta espone i suoi dipinti a Villa delle Favare: «La mia arte è spontanea, priva di riferimenti accademici».

 

Ha dipinto per Moira Orfei, Aldo Montano, Andrea Lo Cicero, Giovanni Malagò e tanti altri ancora. Ha all’attivo diverse mostre: importanti, quelle a Roma, sui 100 anni del Coni o dei 200 anni dalla fondazione dell’Arma dei carabinieri.

Salvo Toti Ardizzone è un artista biancavillese, ma a Biancavilla non ha mai presentato i propri lavori. Lo fa ora a Villa delle Favare con proprie opere, che resteranno esposte fino al 12 ottobre, in una mostra intitolata “Emoticons & Colours”.

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Toti Ardizzone con Moira Orfei

Le opere che Toti espone a Biancavilla sono tele in acrilico in stile pop art, naif, vettoriale. I soggetti sono dedicati a film (“Pirana” e “Lo squalo”) e a fumetti (Batman e Superman).Ma non mancano quadri dedicati a Biancavilla: sono scorci del paese in stile cubista, oltre a quattro nuovi dipinti (“I bummi”, “I pupi”, “Etna a fumetto”, “Ss.Mm.Ee.”, riferito ovviamente a Maria Santissima dell’Elemosina).

Ardizzone è nato a Biancavilla nel 1968 e già da piccolo dimostrava una esagerata passione per il disegno e la pittura. Da sempre incoraggiato e spronato allo studio, da persone mature e colte, ha frequentato scuole e ambienti artistici che lo hanno reso col tempo, un uomo e un artista. Dopo la maturità artistica e la laurea in scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Catania, per tanti anni si è occupato di consulenze e collaborazioni che vanno dall’arredamento al teatro da tavole illustrative, da giurato per concorsi cinematografici a rassegne cinematografiche, fino all’animazione sia culturale che ricreativa presso istituti scolastici, agenzie e villaggi turistici.

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Il dipinto dedicato a Federica Pellegrini

«I pittori naif –spiega Toti a Biancavilla Oggi– sono in genere autodidatti, e pur avendo alle spalle studi d’arte, mi ritengo tale, essendo i miei dipinti, ai quali dedico buona parte del mio tempo libero, frutto di una grande passione per l’arte e la pittura in particolare. Amo definire la mia arte “spontanea”, cioè libera nell’interpretazione e nella raffigurazione della realtà, priva di riferimenti alle regole accademiche della pittura. Il mio stile e modo di esprimermi passa attraverso l’utilizzo di colori accesi e vivaci, così da creare forti contrasti, di tratti semplici ed alcuni elementi decorativi».

È un artista che “pesca” la propria ispirazione dalle fonti più disparate (cinema, letteratura, musica, paesaggi…). «Ma qualunque sia il tema rappresentato –sottolinea– ci tengo che si possa riconoscere il mio personale stile, che amo definire “pop-vettorial-naif”, in quanto nato dalla commistione tra questi tre stili. Penso che il sogno di ogni artista sia vedere le proprie opere apprezzate, di trasmettere le proprie emozioni e condividerle attraverso delle tele, dei colori che esprimono ciò che siamo ed è proprio questa la mia aspirazione».

La mostra, patrocinata dal Comune, nell’ambito delle festività patronali, si inaugura sabato alle ore 18, a Villa delle Favare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via

Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee

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Lavoratori nelle campagne di Biancavilla © Foto Nero su Bianco Edizioni

Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.

A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.

Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc.  Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.

La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:

… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura? 

In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):

Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.

E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):

E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»

Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):

Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.

Poi con Uno sbirro femmina (2007):

«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare   proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».

E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):

La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!

Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):

Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.

E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):

«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.

Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140.  Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):

Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.

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