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L’Icona di Maria Ss. dell’Elemosina? «È opera di un monaco basiliano»

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Un momento dell’incontro tenutosi in chiesa madre (foto Associazione Sme)

Secondo simposio sul quadro sacro a cui si lega l’origine e l’identità di Biancavilla. Gli studiosi rigettano le tesi contenute nel recente libro di Giosuè Salomone, che “riscrive” le vicende degli esuli albanesi di fine ‘400.

 

«Il quadro della Madonna dell’Elemosina? Si tratta di una purissima icona bizantina, probabilmente opera di un monaco basiliano, come attestano le lettere del retro della tavola».

Lo ha affermato padre Michele Pirotta dell’Eparchia greco-cattolica del “Gran Varadino” (Romania) ed assistente spirituale degli albanesi di Lombardia, intervenendo al secondo simposio di studi sull’icona biancavillese, tenutosi in basilica e promossa dall’associazione Sme, presieduta da Giuseppe Santangelo.

Un appuntamento, che, come evidenziato dall’associazione, «ha avuto il pregio di sottolineare il grande valore artistico, teologico e spirituale, smentendo le fantasiose ricostruzioni di chi ha affermato che sarebbe un’opera del tardo ‘500, addirittura attribuibile ad uno dei Niger».

Il chiaro riferimento è al recente libro del prof. Giosuè Salomone, in cui vengono presentate suggestive e rivoluzionarie affermazioni ed ipotesi sulle origini di Biancavilla, gli esuli albanesi che si stanziarono a Callicari e la realizzazione di quell’icona, su cui si fonda l’identità cittadina. Uno studio comunque affascinante, pubblicato da “Giuseppe Maimone Editore, e su cui Biancavilla Oggi ha dedicato questo speciale.

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Diversi i riferimenti, più o meno espliciti, durante il simposio, al lavoro di Salomone.

Ancora il papas Michele Pirotta: «Non sarebbe neppure strano che sia stata portata dagli esuli in fuga dall’Albania. Anche i cristiani di Costantinopoli, costretti alla fuga a seguito dell’invasione musulmana della città, portarono con sé tra le cose più preziose le Sante Icone. Per la cultura orientale, infatti, l’icona è un elemento di grande valore, è luogo di presenza, finestra dell’invisibile sul visibile, luogo di sintesi e di incontro tra Cielo e Terra. L’Icona non è un idolo, poiché la venerazione rivolta ad essa non riguarda la tavola materiale, ma il soggetto in essa raffigurato, come sancito dal Concilio di Costantinopoli II. L’Icona è sporgenza di Dio che si affaccia sul mondo per donare il suo sguardo di Misericordia. Questo, in particolare, è il messaggio dell’icona di Biancavilla».

Durante l’incontro, a cui ha partecipato il prevosto Pino Salerno, sono state illustrate le ultime ricerche del prof. Placido Antonio Sangiorgio (impossibilitato ad essere presente). Come aveva già anticipato a Biancavilla Oggi in questo suo intervento, il contributo di Sangiorgio ha evidenziato che, secondo il direttore del museo bizantino di Atene, quella di Biancavilla è un’icona bizantina di scuola cretese, databile ai primi del 1500. Nel resoconto pubblicato nel sito dell’associazione Sme si sottolinea che «l’intervento di Sangiorgio ha smontato la recente ricostruzione di Giosuè Salomone, che non tiene adeguatamente conto delle iscrizioni del retro dell’Icona e delle dimensioni del dipinto, che non poteva essere certamente un regalo per un matrimonio. Inoltre, cita uno studio del Pisano del sec. XIX in cui l’Icona di Biancavilla è indicata tra le opere d’arte più significative della Sicilia e che non può certamente essere messa in connessione con le opere dei Niger».

Tra gli altri interventi, moderati da Alessandro Scaccianoce, quello del papas Giorgio Caruso dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, e quello del prof. Matteo Mandalà dell’Università di Palermo.

Il primo «ha richiamato la lunga tradizione degli Albanesi di Sicilia che hanno riconosciuto nell’icona della Madonna dell’Elemosina di Biancavilla l’icona portata originariamente dai Padri».

Il secondo «ha esposto le ultime ricerche sulle migrazioni degli albanesi, evidenziando come Biancavilla sia stato un centro cruciale nel passaggio da Messina verso la Sicilia occidentale».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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2 Commenti

2 Commenti

  1. Paola Natalia58

    3 Settembre 2014 at 14:37

    Per quanto riguarda le iscrizioni sul quadro, nel libro Biancavilla e i Niger c’è un’ampio paragrafo che spiega la loro inattendibilità…evidentemente questi critici non hanno letto il libro 🙂

    • Giuseppe

      6 Settembre 2014 at 17:41

      …qui si parla delle iscrizioni sul RETRO dell’icona. non quelle chiaramente visibili da tutti nella tavola pittorica…

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Cultura

Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”

Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada

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Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.

Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.

In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.

Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:

Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!

Toponimo in zona Vigne

Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.

Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.

Alle origini del termine

Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica:  a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.

Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.

Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!

Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.

Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:

Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchiodispensa consigli, cura malattie.

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