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Cultura

La voce di Nonò Salamone, uno degli ultimi cantastorie ospite a Biancavilla

Presentato il libro “Favi amari”: evento organizzato dall’Accademia Universitaria Biancavillese

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Sala gremita a Villa delle Favare di Biancavilla per la presentazione del libro “Favi amari. Il lungo viaggio del cantastorie Nonò Salamone” (Edizioni Lussografica, 2020), scritto da Michele Burgio.

Originario di Sutera, in provincia di Caltanissetta, Nonò è considerato «uno degli ultimi cantastorie». E non a caso, è incluso nel Registro delle eredità immateriali della Regione Siciliana. Nella sua carriera ha incontrato artisti del calibro di Ignazio Buttitta e Rosa Balistreri (coi quali ha condiviso una vicinanza umana oltre che professionale), Claudio Villa, Mino Reitano, Roy Paci e molti altri. 

L’evento, organizzato dall’Accademia Universitaria Biancavillese, ha visto l’eccezionale partecipazione dell’artista stesso, accolto con calore e affetto dai tanti spettatori. Sono intervenuti il prof. Salvatore Farina, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo “R. Settimo” di Caltanissetta e direttore di collana per Lussografica, il dott. Riccardo Ricceri, co-organizzatore e moderatore dell’incontro, e la prof.ssa Rosa Lanza, presidente dell’Accademia.

L’autore del testo, Michele Burgio – impossibilitato a partecipare – ha fatto pervenire una lettera di ringraziamento indirizzata all’Accademia e a tutti i cittadini di Biancavilla.

La serata è stata scandita dai canti di Nonò Salamone, che ha visibilmente commosso la platea rievocando le storie degli umili, dei poveri della terra, degli sfruttati antichi e moderni. Ma non sono mancati i momenti più distesi e divertenti, grazie ad una versatilità artistica che gli consente di spaziare anche sul registro della comicità.

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Cultura

W San Placido: il santo del popolo che almeno per un giorno ci rende comunità

Il Patrono di Biancavilla: di fronte a tradizioni ridotte a farsa, l’unica certezza resta quella del 5 ottobre

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In un tempo di storiografie deboli, di identità incerte, di farse battezzate a tradizioni, il biancavillese ha in sé una sola certezza: il 5 ottobre viene san Placido. E non se ne fa, se il programma civile (dopo quello delle funzioni) quest’anno si intesta con un generico e mostoso “Ottobre in festa” (bisognerebbe capire cosa abbia fatto derogare all’attesa e gioiosa “Festa di San Placido” l’ibrida locuzione dall’indifferente gusto oltralpino, considerando che gli eventi in programma iniziano a fine settembre e non vanno oltre la prima settimana del mese successivo).

Ma San Placido, si sa, è festa di città. La festa. Di questa città. Il Benedettino non è santo di giaculatorie, litanie e piagnistei. È quasi impossibile, infatti, trovare un concittadino che conosca due righe, due, di una qualche preghiera dedicata al Patrono. Non a caso l’omonima novella di Federico De Roberto, ambientata a Biancavilla, ha avvio nel palazzo comunale e non in chiesa (si veda il volume pubblicato da Nero su Bianco Edizioni). Infatti, a differenza degli altri protettori, il martire è il cuore collettivo della società che si rigenera: il solo che per esistere non ha bisogno di ancoraggi alla fondazione.

Una festa di tutti, nessuno escluso

Santo ghibellino e socialista, di popolo: mette tutti d’accordo. Nessuno si sente escluso dalla festa. Tra un pasto luculliano e un vestito nuovo, una luminaria e uno sparo, una bancarella e un cantante, una crispella e un pezzo di torrone, in un giro di giostra, ce n’è per tutti. Si capisce che il culto di Placido risulta funzionale a un certo clericalismo, mentre non si dà per scontato il contrario.

Duole, però, che le tradizionali mongolfiere siano sparite al seguito della corsa dei cavalli, e la fiera del bestiame non ritorna a prendere posto, seppure rivista, nel calendario: quanto sarebbe atteso per i più piccoli, ad apertura di festività, un evento di promozione all’adozione degli animali e di conoscenza delle specie protette del Parco dell’Etna, quando le politiche degli ultimi governi si muovono a favore di educazione e terapia con gli animali.

Il Santo “civile” lontano da ori e pompe

È figura identitaria pop quella di Placido. Rifugge da ori e da pompe. Accondiscende alle messe, ma resta il Santo civile. E mantiene carattere del divino nella più occidentale delle tradizioni: quella di avere vizi umanissimi, ricorrere a una padella per difendere la sua salsiccia, facendo nero l’omologo adranita, e si tiene caro il territorio dal quale non accenna ad allontanarsi, pena mollare una gran pedata ai limitrofi trafugatori. Quanti nonni raccontano, ancora, queste vicende ai nostri occhi incantati di pargoli di sempre.

Santo del mito, più che del rito. Nel mutamento demografico e nell’ibridismo culturale, la sua festa – cerniera tra le stagioni e spartiacque dell’agenda nostrana – si perpetua e ci fa comunità. Per un giorno. E dai vecchi barbanera della Penisola ai calendari rurali riemerge Biancavilla nel novero delle feste nazionali, per il suo San Placido. Lo stesso al quale era intestata la prima banca popolare di microcredito: “Cassa rurale San Placido”.

Ma oggi, per una decina di minuti, per noi, i botti non saranno quelli dei notiziari atroci, della gragnuola che si abbatte nel medio oriente e nell’est dell’Europa. La disperazione anche per quest’anno è rimandata. E sarà bello trovarci ancora a mezzogiorno, senza classi, senza titoli, senza miseria all’uscita festosa del monaco rubicondo, con l’istinto condiviso di afferrare un rettangolino di carta colorata e leggerci: “W San Placido”!

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