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Cultura

“Squatriari”: un verbo che ha una lunga storia alle spalle… dal mare alla terra

Una parola che è stata sostituita ormai da sinonimi più generici, come “”llisciari” e “scartavitrari”

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Arco di San Giuseppe a Biancavilla

Ogni professione o mestiere, dal contadino al medico, passando per il barbiere e l’ingegnere, fino al pastore e al geologo, oltre ad avere inventato, adattato e perfezionato strumenti e attrezzi con cui svolgere queste attività, ha sviluppato un proprio linguaggio, con un proprio lessico specialistico, comprensibile solo all’interno di determinate attività agro-pastorali, artigianali e professionali.

Fuori dall’ambito agricolo, per esempio, è difficilmente comprensibile un verbo come rritizzari che a Biancavilla significa “spianare con la zappa i monticelli accumulati nelle zappature precedenti accanto alle viti”. Senza dimenticare che altrove lo stesso verbo significa “effettuare la terza aratura del terreno in preparazione della semina”.

Solo nell’ambito della chirurgia, per riferire un altro esempio, risulta comprensibile un termine come laparoscopia “tecnica chirurgica mininvasiva utilizzata a fini diagnostici e terapeutici, che permette lo studio della cavità addominale e dello scavo pelvico”.

Progresso ed erosione lessicale

Chi non è del mestiere, come si dice, se richiesto dalla situazione comunicativa, userà in sostituzione dei termini generici e più diffusi, del tipo zzappari o llaurari o indagine chirurgica ecc. Non si creda, però, che i settori specialistici siano impermeabili l’uno con l’altro, perché un temine, nato in un ambito particolare, spesso si diffonde in altri ambiti, attraverso specializzazioni o estensioni di significato.

Il progresso della tecnologia e la conseguente formazione di nuove parole, tuttavia, interessando tutte le attività di cui si è detto, fanno sì che molti termini legati all’agricoltura, alla pastorizia e ai mestieri tradizionali vengono sostituiti e dimenticati.

A farne le spese per primi sono i termini del lessico specialistico: l’allevamento intensivo, per esempio, oltre ad avere limitato profondamente l’alpeggio e la transumanza degli animali, ha cancellato dall’uso un termine mirìu “posto all’ombra dove si raduna il bestiame al meriggio”. Un ricordo di questa parola e dell’attività cui si riferisce si trova nel toponimo biancavillese u chjanô mirìu o Piano Mirio, nella toponomastica ufficiale.

Lisciare e scartavetrare

Anche nell’artigianato si assiste allo stesso processo di erosione del lessico specialistico tradizionale. Le macchine levigatrici orbitali, per esempio, che indubbiamente facilitano il lavoro dei falegnami e degli imbianchini, hanno drasticamente limitato l’uso di carte abrasive, come la carta vetrata, e hanno da tempo sostituito alcune attività manuali e le parole con cui si designavano.

Una di queste, conosciuta forse dagli artigiani più anziani, è squaṭṛïari “levigare il legno”, “rifinire con la carta vetrata una porta o una finestra, già preparate con lo stucco, prima della verniciatura”; “trattare l’intonaco con la carta vetrata o altro mezzo adatto a eliminare ogni irregolarità prima di imbiancare le pareti o di applicare la carta da parati”.

Il verbo squaṭṛïari, che è stato da tempo sostituito da sinonimi più generici, come llisciari o scartaviṭṛari, ha alle spalle una storia molto interessante. Sbaglia intanto chi pensa che tale parola abbia qualcosa a che vedere con squaṭṛa “squadra” e con squaṭṛari “squadrare”, perché, come scartaviṭṛari deriva dalla carta vetrata, il nostro verbo è in relazione con l’antenato della carta vetrata che era a peḍḍ’i squaṭṛu o solamente squaṭṛu “pelle di squadro”, cioè la pelle di squadro o di altro pesce cartilagineo usata, per la sua ruvidità, per levigare il legno o per pulire i mobili.

I “pellisquadre” dello Stretto

Nelle città costiere della Sicilia si conosce u squaṭṛu “pesce squadro o pesce angelo (Squatina squatina) e a Pantelleria peḍḍ’i squaṭṛu indica la “pomice con cui si dà lʼultimo pulimento al legno”. Il suo nome deriva dal latino volgare *SQUATULU(M), dim. di SQUATUS, probabilmente dalla stessa radice di SQUAMA ʽsquama, scagliaʼ. Molto interessanti sono due usi figurati dell’espressione peḍḍ’i squaṭṛu che nell’area dello Stretto di Messina indica una “persona dalla pelle dura” e una “persona irrecuperabile, sorda a qualsiasi consiglio o ammonimento”.

Su questa base Stefano D’Arrigo, autore di Orcynus Orca, ha descritto l’aspetto e il carattere dei pescatori dello Stretto che chiama pellisquadre, da pellesquadra, detti così, non tanto perché questi pescatori scuoiavano gli squali, come si legge in una rubrica di Paolo Di Stefano del «Corriere della Sera», ma perché, come dice D’Arrigo, hanno la pelle e il carattere ruvidi, come lo squadro:

«Lo sapete voi che significa pellisquadre? Significa che hanno la pelle come quella dello squadro, che sarebbe il verdone, ovverossia il pescecane, e squadro ci sta per squadrare, una pelle insomma come la cartavetrata, quella che serve ai falegnami per ripulire tavole e compensati dalle lische, pareggiandole e allisciandole come un velluto, per poi impellicciarle e lucidarle. Pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri» (da Orcynus Orca).

Dai pescatori, dunque, la pelle di questi squali giungeva, prima, nei maṣṭṛi d’àscia che costruivano o riparavano le imbarcazioni, poi, nei maṣṭṛi d’àscia o fallignami e nei mobilieri dei centri urbani e, infine, nella cassetta degli strumenti degli imbianchini.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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La “volta” ritrovata: l’arcivescovo “svela” gli affreschi settecenteschi restaurati

Prezioso patrimonio di Biancavilla: nella chiesa dell’Annunziata risplendono le opere di Giuseppe Tamo

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© Foto Biancavilla Oggi

Un’opera restituita alla luce, memoria risvegliata, un segno di bellezza che attraversa il tempo: così Biancavilla ha accolto la presentazione ufficiale del restauro degli affreschi della Chiesa dell’Annunziata.

La cerimonia si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, seguita dalla conferenza di presentazione dei lavori della volta: un’opera ora visibilmente più luminosa, liberata dalla patina del tempo, da ritocchi dissonanti e dai cedimenti che avevano compromesso la sua integrità visiva e strutturale.

Un gioiello dentro uno scrigno

A introdurre e presentare l’incontro Dino Laudani, presidente della Confederazione diocesana delle confraternite, che ha ricordato come la Chiesa dell’Annunziata – autentico monumento cittadino – sia stata oggetto, negli ultimi decenni, di molteplici interventi conservativi. «Un gioiello dentro uno scrigno di fede e di arte», ha detto Laudani, sottolineando la continuità di un impegno collettivo nel custodire la bellezza.

Il parroco, don Giosuè Messina, ha ricostruito le origini dell’attuale restauro: «Tutto è iniziato nell’ottobre 2021. Dopo una pioggia battente, della polvere iniziò a cadere da una fessura, aperta dal terremoto del 2018. Fu un segnale. Da lì, con prudenza e speranza, partì il lungo iter verso il restauro». Un cammino reso possibile dal lascito testamentario della signora Maria Zammataro (39mila euro), dai 10mila euro di residui del fondo messo a disposizione della parrocchia da padre Placido Brancato (per quasi cinquant’anni parroco) e dalla generosità dei fedeli (poco più di 4mila euro). Il preventivo iniziale di 73.800 euro è salito a 82mila, coperto in gran parte da questi fondi.

Il sindaco Antonio Bonanno, presente all’incontro, ha annunciato lo stanziamento di 20.000 euro da parte del Comune per contribuire al saldo delle spese residue per un’opera che valorizza e impreziosisce la nostra città.

Una storia mai del tutto scritta

Il professor Antonio Mursia ha arricchito la conferenza con un’ampia contestualizzazione storica. Un documento del 1872 del Prefetto di Catania chiedeva una copia dell’atto di fondazione della chiesa: ma nemmeno allora, il prevosto fu in grado di fornirne una. Solo agli inizi del Novecento, lo storico Placido Bucolo riesce a ricostruire la storia della chiesa. A volerne la costruzione fu alla fine del Cinquecento Dimitri Lu Iocu, giurato della Terra di Biancavilla: un’iniziativa non solo religiosa, ma anche civile e politica. Nel 1714, grazie a un lascito di Maria Carace, si avviò l’ampliamento della chiesa, su progetto del magister Longobardus, figura di spicco nella progettazione ecclesiastica della diocesi.

Il restauratore: «Sobrietà e impatto visivo»

Il momento più tecnico dell’incontro è stato l’intervento del restauratore Giuseppe Calvagna. Gli affreschi della volta, realizzati nel Settecento da Giuseppe Tamo, erano stati eseguiti con la tecnica della pittura a secco, scelta versatile ma fragile nel tempo. Le infiltrazioni d’acqua, i terremoti e restauri maldestri effettuati tra Ottocento e Novecento – alcuni con latte di calce – avevano offuscato l’opera originale, coprendone i tratti e minacciandone la stabilità.

Il lavoro di restauro ha richiesto interventi strutturali complessi: consolidamento dell’intonaco con resine, fissaggio del colore per fermarne il distacco, rimozione di croste dure e sedimentazioni. Si è poi proceduto alla ricostruzione morfologica delle lacune e infine alla reintegrazione pittorica con colori ad acquerello, rispettando le tecniche conservative. «In alcune parti non abbiamo trovato tracce originarie – ha spiegato Calvagna – ma l’obiettivo è stato restituire leggibilità e armonia. Il risultato è un’opera sobria, equilibrata e di forte impatto visivo».

L’architetto Antonio Caruso, che ha diretto e mediato tra i diversi professionisti coinvolti, ha posto l’accento sull’importanza della manutenzione ordinaria. «Le opere architettoniche e decorative non sono eterne: richiedono attenzione costante, altrimenti rischiano danni irreversibili».

Il vescovo: «Immagini che toccano il cuore»

A chiudere, l’intervento dell’Arcivescovo Renna, che ha dato al restauro un significato teologico profondo: «Queste immagini non sono semplici rappresentazioni. Esse raccontano la fede: dalle antiche profezie che parlano di Maria, fino agli Evangelisti, immagini mariane e cristologiche che ci introducono al mistero della salvezza e che parlano fino ai nostri giorni restituendoci significati profondi. Come la simbologia dei fiori e della natura che fiorisce, segno più bello della redenzione dell’uomo. Nel ciclo possiamo trovare patristica, teologia, dogmatica, in un racconto che tocca ancora oggi il cuore dei fedeli.

Oggi, tra le volte luminose dell’Annunziata, quegli affreschi sembrano custodire una memoria silenziosa. Non parlano solo del passato, ma anche del presente e del futuro. Restano lì, tra luce e ombra, a ricordarci che ogni bellezza custodita è anche una forma di resistenza – contro l’oblio, contro il tempo, contro l’indifferenza.

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Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati

Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

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Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.

Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.

“U Signuri” e i quartieri in festa

In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.

Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.

Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.

Gli altarini con le lenzuala bianche

Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.

Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.

Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati

Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.

Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.

Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.

Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.

Tradizione che si rinnova

Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.

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Registrazione al Tribunale di Catania n. 25/2016
Iscrizione al Roc n. 36315
Direttore responsabile: Vittorio Fiorenza

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