Cultura
“Acitobbis! O chissu o nibbis!”: il latinorum del parroco e del sacrestano
L’aceto al posto del vino: c’è chi giura, a Biancavilla, che la storiella sia realmente accaduta


All’interno di una storia linguistica del latino della Chiesa, andrebbe dedicato un capitolo alla trasmissione e soprattutto alla ricezione del latino nelle classi popolari, prima dell’ultimo Concilio, dopo il quale, con l’abolizione, fra l’altro, della messa in latino, questo rapporto si è interrotto definitivamente. Sull’argomento esiste una ricca aneddotica che sarebbe il caso di raccogliere e catalogare.
Quand’ero ragazzino, a Biancavilla, mio padre mi raccontava spesso questa storiella che diceva essere realmente accaduta. Una parrocchiana che voleva donare del vino al parroco, lo diede al sacrestano perché glielo portasse in canonica, ma questi, fatto uno scambio, invece del vino, consegnò al parroco l’aceto. Il giorno della messa, durante la consacrazione del vino, il parroco si accorse che quello che stava bevendo era aceto e, rivoltosi al sacrestano, suscitò questo salace scambio di battute in latinorum (P = parroco – S = sacrestano):
P – ACITOBBIS! (È aceto!)
S – O CHISSU O NIBBIS! (O codesto o niente!)
P – FORA NI PARRABBIS! (Fuori ne parliamo!)
S – SU MI CI TRUVABBIS! (Se mi ci troverai!)
Non sappiamo se i fatti si svolsero veramente, né, eventualmente, dove e quando, né si conoscono i nomi dei protagonisti, ma, secondo alcuni, vi sono nomi e circostanze documentate. A detta di un utente della rete, infatti, negli anni compresi tra il 1930 e il 1940, un canonico di Sortino, conosciuto come Marruggiu o Marruggio, mentre celebrava la messa, si accorse che nel calice non c’era vino ma aceto e, rivolto al sacrestano, disse:
P – CHISTU È ACITU ACITOBIS
S – O CHISTU O NENTIS
Il prof. Giuseppe Pappalardo, palermitano, ma originario di Ragalna, ricorda la versione appresa da suo padre:
– Vinus acitobbis…
Ntâ sacristÌa ni parramus…
E il sacrestano:
– Si mi cci attrovis!
Dalla vicina Misterbianco proviene, invece, questa versione riportata da Antonio Belfiore (Il mio paese (Studio storico, socio-economico e di costumi della terra di Sicilia, 1970)):
Saristanu Saristanobis!, Interrogò il celebrante nel bel mezzo dell’offerta all’altare. Parrati, chi vulibis?, rispose il manigoldo, godendosela assai, Stu vinu è acitobis ! …; O chistu , o nibis . L’Ostia è scorcia d’ovobis ! .. Tantu ‘ pa rusicabbis … ‘ N saristia ni parrabis ! … Su mi ci truvabis
Un’altra testimonianza ci proviene addirittura dal Brasile, ma il racconto riguarda la Sicilia e in particolare Riposto. Nel numero 22 (a. VIII) 2012 della rivista «DanteCultural», che raccoglie scritti per celebrare il centesimo anniversario della fondazione del Colégio Dante Alighieri di San Paulo del Brasile (1911-2011), il presidente José de Oliveira Messina, ex alunno del Colégio negli anni 1934/1946, scrive nella sua testimonianza (A fuga inusitada (crônica siciliana)) che nel 1919, come detto a Riposto, secondo il racconto del chierichetto che aveva assistito all’alterco tra il sacerdote e il sacrestano, avvenne questo dialogo:
P – “Acitobis donato mihi” [que, em vernáculo português, se traduzem como “você me deu ácido”]
S – “Vipere, te lai” (“Você tem que beber”)
P – “Na sarestia ni verremu” (“Na sacristia nos veremos”).
Ancora una versione del dialogo tra sacerdote e sacrestano, condivisa da G. Di Gangi sul gruppo facebook «Sicilia mia … cultura e tradizioni»:
P – Acitu acitobis (riferito al vino)
S – Biviri ti l’hai
P – In Sagresta nni parramu
S – Si mi truoverai
P – Duminica ti cacciu
S – Sabatu mi nni vaju.
Le sei versioni che sono riuscito a mettere insieme, ma certamente ce ne saranno tantissime altre, hanno tutta l’aria di essere delle barzellette nate per mettere alla berlina il debole dei preti per il buon vino, mentre il sacrestano fa la parte del «servus callidus», cioè del servo astuto, che si fa beffe del padrone. Sul piano linguistico è interessante la parodia del latino della chiesa così come doveva suonare nelle bocche dei parroci di campagna e come doveva arrivare nelle orecchie dei parrocchiani analfabeti.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
A Biancavilla “scaliari” è frugare e “a scalia” la fanno le forze dell’ordine
Ma in altre parti della Sicilia la parola (di origine latina, in prestito dal greco) ha pure altri significati


Un proverbio che avremmo potuto leggere ne I Malavoglia, anche se nella forma del calco in italiano è Il gallo a portare e la gallina a razzolare. Come documenta, infatti, Gabriella Alfieri in uno studio dedicato ai proverbi ne I Malavoglia, Verga aveva prima aggiunto questo proverbio nel manoscritto e poi lo aveva espunto dall’opera andata in stampa. La forma siciliana del proverbio è quella registrata da Pitrè: lu gaddu a purtari e la gaddina a scaliari, il cui significato paremiologico vuole essere quello secondo cui “in una famiglia con piccoli guadagni e piccoli risparmi si riescono a fare cose di un certo valore”.
Il significato di “razzolare” che Verga attribuisce a scalïari è diverso da quello che si usa a Biancavilla, cioè “frugare”, per esempio scalïàricci i sacchetti a unu “frugare nelle tasche di qualcuno”, oppure scalïari a unu “perquisire qualcuno”; da qui la scàlia cioè la “perquisizione” operata dalle forze dell’ordine: mi poi scalïari i sacchetti, nan ci àiu mancu na lira, così in risposta a chi ci chiede de soldi.
In altre parti della Sicilia scalïari ha anche altri significati: a) “razzolare, delle galline”, b) “rovistare, rimuovere ogni cosa per cercare un oggetto”; c) “mettere tutto a soqquadro, scompigliare”; d) “rubare”; e) scalïàrisi i sacchetti vale scherzosamente “tirar fuori il denaro”, mentre f) scalïàrisi a testa significa “guastarsi la testa”, nell’Agrigentino. Nel Ragusano il modo di dire scalïari a mmerda ca feti, lett. “frugare lo sterco che puzza”, ha il significato figurato di “rimestare faccende poco pulite”. Dal participio derivano: scalïata e scalïatina “il razzolare”, “il frugare alla meglio”, “perquisizione sommaria”; scaliatu “riferito alla terra scavata e ammonticchiata dalla talpa”, nel Nisseno; in area catanese meridionale con peṭṛi scalïati si indica un “cumulo di pietre ammonticchiate alla rinfusa nei campi coltivati”.
“Scaliari” tra poesie e canzoni
Non molto adoperato nei romanzi di scrittori siciliani, scalïari è usato in poesie dialettali e in canzoni, come in questa dal titolo Tintatu dall’album Incantu, di un cantautore agrigentino che usa lo pseudonimo di Agghiastru:
Cunnucimi jusu chi l’occhi toi vasu
araciu tintatu di viriri jo.
Unn’è la to luci chi scuru cchiù ‘n sia
e scaliari a lu funnu un sia mai.
Parola d’origine latina, ma prestata dal greco
Molto interessanti, ai fini della comprensione dell’origine della parola, oltre a quello di “razzolare”, sono i significati di “zappare superficialmente” e di “rimuovere, ad esempio, la brace o il pane nel forno”. La nostra voce deriva da un latino parlato *SCALIDIARE, a sua volta prestito dal greco σκαλίζω (skalizō) “zappare, sarchiare”, voce presente nei dialetti greci di Calabria, coi significati di “zappettare”, “sarchiare”, “razzolare”, “attizzare il fuoco”, “frugare”.
Partendo, dunque, dal significato più antico, che è quello di “zappare”, si arriva, nell’ordine, a quelli di “sarchiare”, “zappare superficialmente”, “razzolare”, cioè raspare la terra con le zampe e il becco, e, infine, “frugare”, cioè cercare minuziosamente, con le mani o anche servendosi di un arnese, in ripostigli o in mezzo ad altri oggetti.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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