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Cultura

San Placido tra pranzi solenni e il gran finale con una porzione di “scumuni”

Un tuffo nelle tradizioni culinarie e dolciarie legate ai festeggiamenti per il patrono di Biancavilla

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Arriva san Placido. Lo hanno annunciato i mortaretti già il 5 settembre. E lo dicono adesso anche il profumo di mosto e il fumo delle prime caldarroste, gli archi delle luminarie, il primo fresco e tutta una atmosfera che difficilmente si riesce a descrivere con le parole. Tutto questo, in poche settimane, ci accompagna alla ricorrenza più attesa dai biancavillesi, quella che segna il limite tra la bella stagione e l’inverno (san Prazzitu è stidda d’acqua, recitavano gli antichi).

E mentre in piazza si attende il manifesto col programma (per secoli e fino a qualche anno fa su un foglio piccolo o grande quanto mezza casa si leggeva in rosso “Festeggiamenti in onore di san Placido”, oggi invece si preferisce condividere i link sui social media con titoli che spesso scordano il Festeggiato), nelle famiglie si comincia a parlare di cosa cucinare e di quanti saranno gli invitati per il pranzo solenne, il momento in cui tutta la famiglia sarà riunita.

San Placido e i vari momenti della festa a lui dedicata hanno da sempre rappresentato l’unione e la fraternità nel parentato, nei quartieri, in tutto il paese. Tutti i biancavillesi il 5 e il 6 ottobre si ritrovano uniti attorno all’immagine di questo monaco benedicente e sorridente, con lo sguardo rivolto a chi, a fil di voce, gli porge una preghiera.

Peculiarità ricche di storia

Ogni festa ha aspetti peculiari legati alla convivialità e al cibo che rimandano anche alla prosperità, alla salute e al benessere di una comunità. Per san Placido si teneva la fiera franca del bestiame, di utensili, di mercanzie e alimenti di ogni genere. Nelle tavole arrivavano salsicce e carne, lasagne, maccarruna e tagghiarini da condire con il ragù. Una parte importantissima era rappresentata dai dolci rigorosamente fatti in casa come il torrone e i past’i mennula (la mandorla era stata cutulata, sgaddata e stinnuta ‘o suli davanti alle case per poi essere scacciata e usata come alimento, mentre il mallo e la buccia sarebbero stati ottimo combustibile per l’inverno).

Ma a far da padrone in questi giorni solenni era sicuramente il richiestissimo e prelibato scumuni. Si tratta di un gelato al cioccolato con un ripieno schiumoso di zabaione che arricchiva una volta le sontuose tavole dei Benedettini.

Si deve agli arabi, più di mille anni fa, l’idea di mischiare la neve delle montagne siciliane con zucchero e aromi vari per creare un alimento chiamato da loro sherbet, utilizzato come rinfrescante e anche per scopi farmaceutici (addizionato a del succo di limone). Agevolmente preparato nella nostra zona poiché l’Etna, con la sua neve presente in parecchi mesi dell’anno, riusciva a fornire in abbondanza la materia prima. Cacciati gli arabi dall’isola, i segreti del dolce gelato furono raccolti dai monaci, stanziati nel territorio etneo proprio dopo l’espulsione dei musulmani, che ne affinarono e migliorarono la preparazione moltiplicandone i gusti con l’aggiunta di cioccolato, marmellata e confetture, cannella e vaniglia…

A Biancavilla, è presumibile che arrivi nel corso del Sette/Ottocento, forse portato proprio da qualche monaco custode dell’antica ricetta, e si attesta come dolce prediletto per concludere i pranzi di gioiose ricorrenze come matrimoni e battesimi.

Una preparazione complessa

Diversamente dagli altri dolci, che potevano essere preparati tra le mura domestiche, u scumuni doveva essere realizzato in “laboratori specializzati”, in possesso di gelatiere (un sistema di contenitori cilindrici di legno o metallo da girare manualmente, dentro ai quali si metteva la neve e il sale per far ghiacciare il composto).

Il procedimento seguiva due momenti ben distinti: la preparazione della camicia, ovvero il rivestimento di cioccolato, e poi dell’anima, fatta di tuorlo d’uovo sbattuto con zucchero, aromi e qualche goccia di liquore. Il tutto veniva sistemato dentro a delle forme di acciaio a campana e da lì a qualche ora – dopo essersi “raffermato” per bene – poteva essere gustato.

La realizzazione e soprattutto la conservazione, quando non c’erano energia elettrica e frigoriferi nelle abitazioni, facevano dello scumuni una vera ricercatezza.

Aspetti letterari, culturali e di folclore

Di una gelatiera nuova, come macchinario di ultima generazione, si parla nella novella di Federico De Roberto, intitolata appunto “San Placido” e ambientata presumibilmente proprio a Biancavilla nella seconda metà dell’Ottocento.

Il Caffè Italia – sito tra la piazza Collegiata e la via Vittorio Emanuele, i cui titolari (Pippinu Lavenia detto Spalletta e i suoi familiari) avevano ereditato la ricetta – negli anni Venti del Novecento arrivava a venderne quattrocento forme solo nei giorni della festa.

Fino a pochi anni fa la Confraternita del Santissimo Sacramento, preposta allo svolgimento delle celebrazioni patronali, offriva a tutti i suoi confrati una forma di scumuni da portare in famiglia.

In tempi recenti, un monaco in visita nella nostra città ha affermato che «lo schiumone, potrebbe rappresentare bene l’essere umano: per capirne in pieno l’essenza non ci si può fermare solo alle apparenze esterne (il cioccolato) ma bisogna scoprirne per intero il sapore addentrandosi a ciò che esso racchiude (lo zabaione)…». Ma questa già sarebbe un’altra storia…

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Cultura

Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati

Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

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Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.

Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.

“U Signuri” e i quartieri in festa

In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.

Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.

Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.

Gli altarini con le lenzuala bianche

Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.

Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.

Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati

Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.

Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.

Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.

Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.

Tradizione che si rinnova

Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.

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Frammenti di ricordi sugli anni ’50, ’60 e ’70 raccontati da Giuseppe Petralia

“Ci fu un tempo in cui…”: a Villa delle Favare, SiciliAntica ha presentato il libro del cronista biancavillese

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Un tuffo tra gli anni Cinquanta e Settanta, tra personaggi, quartieri e abitudini di vita di un tempo. Racconti di gioventù, aneddoti, figure emblematiche e momenti quotidiani che oggi appartengono alla memoria collettiva.

È questo il cuore del libro “Ci fu un tempo in cui… frammenti di ricordi su fatti e personaggi“, firmato dal giornalista Giuseppe Petralia e pubblicato da Algra Editore. L’opera è stata presentata a Biancavilla, nella sala conferenze di Villa delle Favare, in un incontro promosso da “SiciliAntica”.

Ad aprire la conversazione è stato Enzo Meccia, presidente dell’associazione, che ha presentato l’autore e sottolineato il valore dell’opera nel contesto della memoria storica locale.

Ad accompagnare la presentazione, l’intervento di Salvuccio Furnari, cultore di Storia Patria, che ha offerto una lettura appassionata e coinvolgente del volume, mettendo in luce l’efficacia narrativa dell’autore nel restituire atmosfere e personaggi ormai scomparsi. Petralia descrivere la bellezza dei personaggi e delle storie di un mondo che non c’è più, rendendolo vivo e comprensibile anche ai più giovani. Lo fa, proponendosi non come scrittore ma con gli strumenti del cronista.

Nel libro, infatti, Petralia raccoglie esperienze e fatti vissuti, attingendo alla sua lunga carriera giornalistica e a una collaborazione cinquantennale con il quotidiano “La Sicilia”. E come cronista è animato dal desiderio di trasmettere ai lettori – e in particolare alle nuove generazioni – uno spaccato autentico di vita, quando «senza cellulari e computer, si sapeva vivere meglio».

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