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Occhio al meteo per non essere tirati dalla “lavina” o travolti dalla “ddaunara”

Prima delle “bombe d’acqua”: fenomeni atmosferici estremi e pericolosi nella parlata locale

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© Foto Biancavilla Oggi

Entrato da poco nel dibattito politico, mentre da tempo ne discutono gli scienziati, è il tema dei cambiamenti climatici, nome con cui, secondo la definizione delle Nazioni Unite, «si intendono le variazioni a lungo termine delle temperature e dei modelli meteorologici. Queste variazioni possono avvenire in maniera naturale; tuttavia, a partire dal XIX secolo, le attività umane sono state il fattore principale all’origine dei cambiamenti climatici, imputabili essenzialmente alla combustione di combustibili fossili (come il carbone, il petrolio e il gas) che produce gas che trattengono il calore».

Queste variazioni sembrano dunque la causa della maggiore frequenza di fenomeni atmosferici estremi: aumento delle temperature, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate improvvise ecc. Abbiamo usato deliberatamente la formula «maggiore frequenza», poiché, se è vero che questi fenomeni, in quanto eventi naturali, ci sono sempre stati, è innegabile, e lo confermano le statistiche, che la loro frequenza è in costante aumento. Lungi da noi comunque voler affrontare questo tema che esula dalle nostre competenze e dai contenuti di questa rubrica, ci vogliamo dedicare, invece, ai nomi dialettali usati a Biancavilla per riferirsi ad alcuni fenomeni atmosferici, cominciando con lavina.

Uno rovinato: “tiratu da lavina”

Il significato che i biancavillesi attribuiscono a questo termine è “acqua che scorre ai lati e al centro della strada in seguito alla pioggia”. La conformazione dell’abitato di Biancavilla fa sì che, quando piove con insistenza, ma anche con un acquazzone improvviso, le strade, che dai quartieri alti scendono verso il centro e da qui verso i quartieri bassi, si trasformano in veri e propri torrenti d’acqua che trascinano cose e persone che malauguratamente ne vengono investite. Da ciò nasce il modo di dire tirarisillu a lavina che ha il significato figurato di “essere del tutto rovinato, perdere ogni bene, essere travolto dagli eventi”: a-cchissa, mischina, ccˆmorti di sa maritu, s’a tirau a lavina.  

È chiaro che il significato figurato di questo modo di dire parte da fatti concreti, dall’osservazione di qualcuno che materialmente è stato trascinato dalla forza della lavina. Ma nel rapporto uomo-natura, gli uomini non sono stati sempre passivi; a volte hanno reagito affrontando il pericolo. Ne fa fede il modo di dire dàrisi / ittàrisi a facci â lavina che ha il significato di “lavorare accanitamente non badando a eventuali difficoltà”: pp’amuri dê sa figghji s’a ittatu a facci â lavina! In altre parti della Sicilia, lavina ha ancora tanti significati: da “torrente, fiumara” a “corso d’acqua melmosa che si forma in seguito alle piogge”, da “acqua piovana incanalata per irrigare gli orti” a “modesto avvallamento del terreno nel quale ristagna l’acqua per qualche tempo”, da “striscia di terreno alluvionale coltivato lungo i margini di un torrente” a “frana, smottamento” ecc.

Il tipo lavina, presente nell’Italia meridionale e settentrionale, con esclusione di quella centrale, è anche dell’italiano, in cui ha il significato di “valanga di neve in movimento”, e deriva dal lat. tardo labīna, der. di labi “cadere, scivolare”, da cui anche lava.

Quando “calava a ddaunara”

Un fenomeno, se possibile, ancora più pericoloso e terribile della lavina è la formazione della ḍḍaunara.  In seguito a piogge torrenziali e impetuose, accompagnate da turbini di vento, in alcune zone di Biancavilla, secondo i racconti degli anziani, calava a ḍḍaunara, un fiume d’acqua che trascinava ogni cosa, che entrava nelle case e distruggeva tutto.

I ricordi di chi scrive vanno agli anni in cui, in occasione della festa di San Placido, si sistemavano le bancarelle delle stoviglie e di altre suppellettili da cucina di fronte alla chiesa di Gesù e Maria. Più di una volta è capitato che il fiume d’acqua, la ḍḍaunara, travolgesse tutte le bancarelle, trascinando piatti bicchieri fino alla via Innessa e giù fino alla Fontana Vecchia. 

In altre parti della Sicilia, sono diffuse le varianti ḍḍṛaunara e ṭṛaunara coi significati di “caduta d’acqua torrenziale”, “vento impetuoso e improvviso accompagnato da pioggia”, “turbine di bufera, ciclone, uragano”, “tromba d’aria”, “tromba marina”. Secondo l’etnologa Elsa Guggino, nelle tradizioni popolari, la ḍḍṛaunara «è un vortice di aria che a poco a poco prende la forma di una donna tutta spettinata. È una majara che può essere viva o morta e va contro i pescatori; si porta via anche le case […]».  

Un turbine… letterario

Questa figura ha talmente influenzato i nostri scrittori moderni da intitolarci dei romanzi, come Pino Amatiello (Dragunara), Silvana Grasso (Nebbie di draunàra), Linda Barbarino (Dragunera), e/o da farne un personaggio delle loro opere. Bastino questi pochi esempi:

«Ora ci troviamo tutti e tre davanti alla draunara. Possiamo aiutarci. Non ho alcuna formula magica. So soltanto una preghiera» (Fortunato Pasqualino, La bistenta, 1964).

«E proprio là, mentre stavano calati a sciogliere le pezze, cos’era statoDragonaraTerremoto? Ancora non se ne capacitava. Non li aveva sentiti arrivare, non li aveva visti saltare da sopra i limmiti» (Andrea Camilleri, Un filo di fumo, 1980).

«E sarà finalmente fuoco e fiamma, incendio, tempesta, draunara; sarà terremoto e lava; sarà pura fiamma che arde» (Silvana La Spina, La creata Antonia, 2001).   

La coda del dragone

La parola ḍḍaunara, insieme alle sue varianti, è all’origine un aggettivo, come dimostrano cuda ḍḍṛaunara e cuda di ḍḍṛaguni, lett. “coda di dragone”, con gli stessi significati. Si tratta di un derivato del grecismo latino dracone(m) lett. “serpente”, ma un serpente particolare: «un tipo di serpente grosso e innocuo, tenuto in casa come gioco […] e i dracones presso gli antichi Romani erano i serpenti sacri, allevati nei santuari o nelle case come protettori e custodi» (DESLI – Dizionario etimologico e semantico della lingua italiana). In origine, dunque, questo “drago” non è quello “cristiano”, collegato al diavolo o all’eresia, ma quello di origine preistorica, che di volta in volta si presenta come serpente acquatico, montano, sotterraneo, celeste, rapitore, guardiano, inghiottitore ecc.

Nel corso dell’evoluzione ideologica, pur conservandone il nome, il “drago” diventa un essere pauroso, che cambia forma, fino ad assumere quella antropomorfa di una «donna tutta spettinata», in grado di provocare tempeste, trombe marine, alluvioni, terremoti. Secondo le credenze popolari dei marinai e dei pescatori, questa “coda di drago” poteva essere “tagliata” attraverso dei sortilegi e delle formule magiche. Di solito era un mancino che, vibrando un coltello in aria, descriveva delle croci e tagliava così la coda del drago, ponendo fine alla tromba d’aria.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Zora, Scenzio, Ponzio, Lionella…: i nomi diffusi a Biancavilla ad inizio del 1600

Ricerca onomastica sugli antichi registri dei matrimoni, con una sorpresa: non ci sono “Elemosina”

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Come ci informa Enzo Caffarelli, uno dei maggiori esperti italiani di onomastica, «negli anni Ottanta del secolo scorso due francesi, Philippe Besnard e Guy Desplanques, hanno inventato un dizionario onomastico molto particolare, che documentava la posizione di un nome in una parabola ideale» in cui  «ogni nome, quale più e quale meno, attraversa nella sua “carriera sociale” una fase ascendente cui fa seguito, dopo aver raggiunto il vertice, una fase discendente fino all’obsolescenza pressoché totale, per poi ricominciare, a distanza di 100-130 anni il medesimo percorso».

Se questo è vero, potendosi documentare per alcuni nomi propri che attraversano questa parabola ideale (per esempio Emma, Costanza, Matilde ecc.), è altrettanto dimostrabile che certi nomi propri, adottati sulla base delle mode onomastiche presenti in ogni tempo, hanno una loro vita e un loro prestigio che dura un tempo più o meno lungo, ma, come accade anche al lessico comune, diventano prima obsoleti, poi scompaiono per sempre, in quanto cambiano le mode, le ideologie, i rapporti sociali all’interno dei quali si impongono i nomi propri.

I file del Comune e le carte della Chiesa Madre

In un articolo su Biancavilla Oggi (4 ottobre 2020), l’autore, attraverso la consultazione dei file dell’anagrafe del Comune di Biancavilla, constata che nessuno, a partire dal 1994, chiama la propria figlia Elemosina e quindi tale nome devozionale è destinato all’estinzione. Elemosina rappresenta forse per Biancavilla il caso più emblematico, «a dispetto della devozione che manifesta la comunità cattolica locale verso quell’immagine sacra di Madre dal volto tenero ed affettuoso, con in braccio il Bambino». Esistono tuttavia diversi casi di nomi un tempo usati a Biancavilla e oggi dimenticati, se non proprio ignorati.

Pur non disponendo di una vera e propria banca-dati dei nomi di persona usati in passato a Biancavilla, può risultare utile la consultazione dei registri dei matrimoni della Chiesa Madre, in particolare quello più antico che registra i matrimoni celebrati a Biancavilla dal 1599 al 1637.

L’assenza del nome “Elemosina”

Va osservato preliminarmente che, se risulta normale l’assenza del nome Placido, in quanto il culto per il santo martire è iniziato a Biancavilla nei primi del Settecento, meno ovvia è l’assenza del nome Elemosina, dal momento che il culto della Madonna dell’Elemosina affonderebbe «le sue radici nella fondazione stessa della città».

In realtà, dal registro dei matrimoni sembrerebbe che tale culto sia stato incrementato e favorito dopo il 1630. Solo a partire dal 1631, infatti, i cappellani che registrano i matrimoni, aggiungono che la Chiesa Madre (Matricis ecclesia) è «sub titulo Divae Mariae Elemosinae».

La diffusione di nomi balcanici

Nei primi anni del ’600 erano ancora vivi alcuni nomi di origine balcanica, portati dai fondatori albanesi. Si tratta spesso di nomi che, pur presenti ancora oggi, tradiscono nella loro forma un’origine straniera. È il caso, per esempio, di Alessi, usato attualmente come cognome e presente come nome proprio nella forma Alessio.

Un altro nome di origine balcanica era Dimitri, che troviamo associato a un cognome, Burreci, di sicura origine albanese. La forma moderna di questo nome è ovviamente Demetrio che, tuttavia, non ha un rapporto diretto col precedente. Troviamo ancora un Todaro (Burreci), che a distanza di secoli riappare come cognome, Todaro, come soprannome, Tòtaru, ma come nome proprio Teodoro.

Se, come ci informa l’articolo di Biancavilla Oggi, «gli elenchi dell’anagrafe di Biancavilla riportano solo un cittadino col nome del “protopatrono”», cioè Zenone, il registro dei matrimoni testimonia un Zenonio.

Anche il nome femminile Catrini, insieme al suffissato, Catrinella, tradisce la propria origine greco-albanese, rispetto a quello usato attualmente, Caterina. Il nome Agata, di tradizione latina, aveva già soppiantato, agli inizi del Seicento l’unica variante di tradizione bizantina che ci conserva il registro dei matrimoni, Agathi, cristallizzatasi nei cognomi D’Agati e Santagati. Senza potere escludere che altri nomi siano stati latinizzati, l’ultimo nome di sicura origine balcanica è Zora, ancora usato in area slava, ma del tutto assente ora a Biancavilla.

Quei nomi allora “di moda” ormai estinti

Oltre a questi nomi legati in qualche modo ai fondatori albanesi di Biancavilla, il registro testimonia la presenza di altri nomi che adesso sembrerebbero estinti o con una bassissima frequenza. Lasciando volentieri il compito a chi vorrà consultare gli elenchi anagrafici del comune, vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori alcuni nomi propri usati a Biancavilla nei primi decenni del Seicento e ora molto probabilmente abbandonati del tutto.

Fra i nomi maschili saltano all’occhio: Manfrè, modernamente Manfredi, conservatosi come cognome; Gilormo, modernamente Girolamo, assieme al più diffuso, Geronimo; Cusimano e/o Cuximano, forse per devozione a San Cusimano, presente ora in Sicilia come cognome, Cusimano, Cusumano; di Cruciano sono adesso registrati meno di 5 casi in Italia, secondo l’ISTAT, mentre nessun bambino è registrato adesso coi nomi di Scenzio, Ponzio, presenti invece nel nostro registro assieme a Ortensio, di uso rarissimo in Italia.

Fra i nomi femminili piace ricordare, oltre a Cruciana, Ponzia e Scienzia, alcuni che erano alla moda in quel periodo, anche se di tipo non devozionale, come Angirella (usato nelle famiglie Patania, Fallica e Florenza), Lionella, Paurella, Supranella,Volanti (Violante?), Gratiusa (Graziusa). Il fascino che ha sempre suscitato la città di Venezia ha travalicato i confini al punto da essere usato come nome proprio per le donne: il registro ci conserva Venezia e la var. grafica Venecia. Ma anche il nome della nostra regione era considerato così prestigioso da indurre la famiglia Petrana a chiamare Sicilia la propria figlia.

Il caso di “Bitturda”

Se questi nomi propri si sono obliterati in quanto soppiantati dalle nuove mode, qualche altro non è attecchito perché, già allora, ritenuto poco prestigioso. Il registro ci conserva, per esempio, una Bitturda (= Bertolda) trasferitasi a Biancavilla da Tripi, nel Messinese.

Certo, non possiamo prevedere il quando, ma come si ricava dalla storia dei lunghi periodi, un nome considerato “brutto” e abbandonato, perché associato a certi ambienti socio-culturali, può essere rivalutato in un altro periodo in cui, secondo la moda del momento, sembrerà essere dotato di prestigio, perché, per esempio, la bisavola, donna bella e affascinante, portava quel nome, o magari perché il personaggio di un romanzo o di un film lo ha reso celebre.

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