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“La vecchia ‘nzìpita”, una Befana d’altri tempi sulle note musicali del Rigoletto

La filastrocca con carattere burlesco e di invettiva che veniva rivolta a qualche malcapitata anziana

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Gli studi di etnolinguistica e di etnodialettologia ci insegnano quante informazioni storiche e culturali si possano nascondere nelle pieghe delle lingue e dei dialetti, a quale profondità cronologica possa giungere un’analisi dei dati linguistico-culturali, quando si è in possesso delle necessarie informazioni e di adeguati strumenti euristici ed esegetici.

Ci viene in mente, a questo proposito, una filastrocca infantile che recitavano i ragazzini di Biancavilla almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, facendosi burla di qualche malcapitata anziana. Eccola:

 vecchja ncrìpita     

cci cchjappa l’àcitu,  

u lignu è-ffràcitu,

nan-zervi cchjù!        

Alla vecchia scorbutica

le viene l’acidità,

il legno è fradicio,

non serve più!

Precisiamo che la filastrocca non era in realtà recitata bensì cantata sulle note dell’aria «La donna è mobile …» del Rigoletto di Verdi.

Delle diverse varianti siciliane della filastrocca, cantate con la stessa melodia, ne proponiamo tre, più o meno simili, seguite dalle traduzioni date dagli autori, a parte la terza tradotta da noi:

La prima, registrata nella rivista «Lumie di Sicilia» del dicembre 2019, è di area trapanese:

‘A vecchia ‘nzipita   

c’acchiana l’acitu,

‘u lignu è frariciu      

e ‘un sevvi chiù

La vecchia insipida   

avverte acido,

il legno è fradicio

e non serve più

La seconda è tratta dal racconto «A casa nova», contenuto nella raccolta Dove sono i miei amici (2007) di Tonino Sardo:

A vecchia ‘nzipita     

Ci acchiappa l’acitu, 

U lignu jè fracitu      

Non servi cchjù

La vecchia insipida

soffre d’acidità

il legno è marcio

Si può buttar via

La terza, proveniente da Castelbuono, è attinta da un articolo di Massimo Genchi, Prima che se ne perda la memoria: A vecchia nzìpita, pubblicato il 30 dicembre 2021 su «castelbuonolive.com»:

A vecchia nzìpita      

cci acchiana l’àcitu   

u lignu è-ffràcitu       

e un servi cchiù         

La vecchia insipida

le sale l’acidità

il legno è fradicio

e non serve più

Sul piano linguistico le varianti divergono principalmente per l’attributo che segue la ‘vecchia’. Tutti hanno nzìpita lett. ‘insipida’, mentre la var. biancavillese ha ncrìpita, femm. di ncrìpitu, che il VS traduce con “di vecchio stizzoso, fastidioso, petulante e brontolone”. Più diffuso il derivato ncripitusu che vale “stizzoso”, “dispettoso”, “fastidioso e petulante, riferito ai vecchi”, “caparbio, testardo” e, infine, “collerico; nevrastenico”.

Sul piano etimologico ncrìpitu può ben risalire al lat. increpitus participio di increpere (< in + crepere) “stordire, sconvolgere” ma anche “sgridare, rimproverare, biasimare, schernire”.

Ma se abbiamo compreso con una certa sicurezza il significato della nostra filastrocca, sul piano culturale ci sfugge la motivazione, nonostante Vito Di Bella, l’autore della raccolta di detti e proverbi da cui abbiamo tratto la var. trapanese, dica che si tratta di «una antica solfa popolare che si continua a ripetere. Si adopera per rimarcare la precarietà e la penosità della vecchiaia o di chi lamenta acciacchi». Secondo noi, invece, il fatto che a cantare la filastrocca fossero dei bambini ci lascia molto perplessi su quest’ultima interpretazione di tipo moralistico, mentre quello che ci dovrebbe condurre alla piena conoscenza del significato della filastrocca è il suo carattere burlesco e insieme di invettiva.

Ci soccorre in questo senso sapere che a Castelbuono la vecchia nzìpita era la befana la cui festa era non il sei gennaio ma la notte del 30-31 dicembre. Come racconta Massimo Genchi, nell’articolo citato, «All’imbrunire di ogni 30 dicembre in diversi punti del paese, forse un tempo in tutti i quartieri, stuoli di bambini festanti portavano in giro per le strade un fantoccio fatto di bastoni e stracci che simboleggiava a vecchia, la befana» e, tra suoni di campanacci, cantavano quella filastrocca. La notte, poi, come ogni befana che si rispetti, la vecchia nzìpita entrava nelle case attraverso i comignoli (i ciminìa) e lasciava dolciumi di ogni tipo ai bambini. Inserita dunque in un contesto culturale di questo tipo, la filastrocca allora risulta motivata e comprensibile e la vecchia diventa «simbolo di un anno che va via e speranza di prosperità in quello che viene», come scrive Sebastiano Mannia (Questue e figure vicariali in area euromediterranea, 2015).

Noi non sappiamo se a Biancavilla ci sia mai stata una befana nelle vesti della vecchja ncrìpita protagonista della filastrocca, la cui persistenza fino a oggi, almeno nella memoria di chi scrive, dimostra che almeno gli echi di quella festa sono arrivati fino a noi da altre parti della Sicilia, anche se decontestualizzati e deculturalizzati. Per comprenderne appieno il suo significato abbiamo dovuto allargare il campo d’indagine ad altre aree etnolinguistiche.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Cultura

Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”

Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici

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Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.

Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).

In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:

Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?

Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.

Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.

Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri?Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”

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“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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