Cultura
Percorsi pericolosi con il rischio di finire nei guai: “Circari finocchj’i timpa”
La pianta in questione cresce in luoghi impervi: meglio non avventurarsi in situazioni difficili


Per sconsigliare qualcuno che vuole mettersi in una situazione rischiosa o aleatoria, a Biancavilla si dice(va) ma cu ti cci porta a-terra ca si mpica!? Anche la persona che prudentemente vuole tenersi lontana da situazioni rischiose o pericolose dice ma a-mmìa cu mi cci porta a-tterra ca si mpica!? La terra ca (= in cui) si mpica è il terreno argilloso, difficile da lavorare e da rendere fertile, in quanto impedisce le manovre dell’aratro e i movimenti del contadino, come se questi fosse incollato al terreno medesimo. L’invito o, se vogliamo, il consiglio è quello, dunque, di non impantanarsi in una situazione da cui è difficile venire fuori.
A volte queste situazioni rischiose hanno più il sapore di un’avventura, del desiderio di provare qualcosa che è fuori dal normale, dalla routine quotidiana e dunque di una persona che, disdegnando le cose comuni e sicure, va in cerca di avventure, incurante dei rischi cui va incontro, si dice, per esempio, chissu cerca / va-ccircannu finocchj’i timpa!, cioè “costui non sa in che guai si vuole cacciare!”. L’espressione, nella forma circari finocchi di timpa, è citata dal Pitrè (Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliani, III, p. 269) che così spiega: «andare per cattiva via come chi va pei monti dove si raccolgono questi finocchi. Nun jiri circannu finocchi di timpa, non cercare cose non comuni, inutili, disagiose». Aggiunge inoltre Pitrè che a Nicosia vigeva l’interdizione di consumare questi finocchietti (fenöghjëtö) durante la Settimana santa: chi avesse infranto questo divieto avrebbe avuto la casa infestata da un gran numero di cimici.
Stando alle fonti scritte, i finocchj’i timpa indicano una “varietà spontanea di finocchio commestibile: Foeniculum officinale”, chiamata anche, secondo le località e le fonti, finocchju d’àsinu, finocchju sarvàggiu, finocchju di muntagna («Foeniculum vulgare, italicum, semine oblongo, gustu acuto», come lo definisce il Cupani 1696) e, da noi, finocchju rrizzu. Essendo dunque il finocchietto selvatico una pianta adoperata esclusivamente per il suo aroma intenso e che, secondo le fonti, cresce in luoghi impervi, come le pareti a strapiombo, difficilmente coltivabili, in sic. timpa, il modo di dire stigmatizza chi affronta un pericolo per una cosa non proprio necessaria, come può essere una pianta aromatica.
Se tutto ciò è vero, bisogna segnalare, tuttavia, che a Biancavilla il finocchietto selvatico si chiama, come abbiamo detto, finocchju rrizzu, mentre con finocchj’i timpa si indica un’altra ombrellifera, il “finocchiaccio”: Ferula communis, una pianta tossica ma allo stesso tempo molto utile. Vediamo perché.
Chi scrive ricorda che da piccolo aveva imparato a evitare di toccare questa pianta che cresceva numerosa lungo i bordi delle strade di campagna. I ragazzi più grandi sostenevano che questa pianta produceva un latice capace di gonfiare le parti del corpo con cui veniva a contatto. In realtà sono le parti aeree della pianta a provocare negli armenti il cosiddetto “mal della ferula”, una forma di intossicazione con manifestazioni emorragiche che possono portare alla morte. Una volta cresciuto, il fusto del finocchiaccio si indurisce e cambia anche nome: ferula o ferla, la nostra ferra. Mettendo da parte la sacralità della ferula nella mitologia greca (ricordiamo solo che Prometeo donò il fuoco agli uomini nascondendolo nel tronco cavo della ferula), da noi si usa(va)no i fusti compatti ma molto leggeri della pianta, per farne piccoli sgabelli a forma di cubo: ognuno di essi, chiamato scannu (< lat. scamnum “panchetto, sgabello”), veniva realizzato incastrando e fissando fra di loro, senza chiodi, dunque, i predetti fusti della ferula.
Non bisogna dimenticare, infine, che attraverso le radici della ferula vivono dei funghi simbionti, una varietà simile ai cardoncelli, i nostri ricercatissimi func’i ferra (Pleurotus eryngii var. ferulae).
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
Tra storia e psicologia sociale: Filadelfio Grasso scruta la mente dei briganti
“Nero su Bainco Edizioni”, una nuova prospettiva su una delle pagine più controverse tra ‘800 e ‘900

Il fenomeno del brigantaggio nel territorio etneo, in particolare nei comuni di Bronte, Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Paternò e Belpasso, ma anche – al di là del fiume Simeto – di Centuripe. Un fenomeno storico complesso, ora analizzato da Filadelfio Grasso, studioso e cultore di storia e tradizioni locali, apprezzato collaboratore di Biancavilla Oggi.
La ricerca di Filadelfio Grasso, dottore in Discipline psicologiche e sociali e in Scienze pedagogiche, offre non soltanto un punto di vista diverso, ma anche l’uso della lente della psicologia sociale. “Nella mente dei briganti”, volume pubblicato da Nero su Bianco Edizioni, esplora le radici del fenomeno. Lo fa attraverso il contesto storico dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento, le dinamiche sociali e le condizioni economiche che spinsero uomini comuni a ribellarsi contro le ingiustizie, il modo in cui erano visti dalla comunità in cui vivevano.
Filadelfio Grasso, con documenti e testimonianze, focalizza l’attenzione su personaggi legati al nostro territorio. Non soltanto banditi, ma anche personalità emblematiche, travolte dalla rabbia e dalla disperazione in un’Italia postunitaria segnata da ingiustizie e promesse disattese.
Un’opera che va oltre il freddo racconto dei fatti e che indaga il pensiero, le emozioni e le motivazioni interiori dei briganti, offrendo una nuova prospettiva su una delle pagine più controverse e complesse della storia italiana.
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Chiesa
Nella chiesa dell’Annunziata restauri in corso sui preziosi affreschi del ‘700
Interventi sulle opere di Giuseppe Tamo, il parroco Giosuè Messina: «Ripristiniamo l’originaria bellezza»

All’interno della chiesa dell’Annunziata di Biancavilla sono in corso i lavori di restauro del ciclo di affreschi della navata centrale, della cornice e dei pilastri. Ciclo pittorico di Giuseppe Tamo da Brescia, morto il 27 dicembre 1731 e sepolto proprio nell’edificio sacro.
Gli interventi, cominciati a febbraio, dovrebbero concludersi a giugno, ad opera dei maestri Calvagna di San Gregorio di Catania, che ben conoscono hanno operato all’Annunziata per diversi restauri negli ultimi 30 anni.
Il direttore dei lavori è l’arch. Antonio Caruso, il coordinatore per la sicurezza l’ing. Carmelo Caruso. Si procede sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza ai Beni culturali e ambientali di Agrigento.
«Quest’anno la Pasqua è accompagnata da un elemento che è il ponteggio all’interno della chiesa. Il ponteggio – dice il parroco Giosuè Messina – permette il restauro della navata centrale e delle pareti, per consolidare l’aspetto strutturale della volta e ripristinare la bellezza originaria dell’apparato decorativo. Chiaramente questo ha comportato una rivisitazione del luogo, soprattutto con l’adeguamento dello spazio per permettere ai fedeli la partecipazione alla santa messa».
«In questa rivisitazione dei luoghi liturgici, l’Addolorata – prosegue padre Messina – quest’anno non ha fatto ingresso all’interno della chiesa a seguito degli spazi limitati, ma abbiamo preparato l’accoglienza in piazza Annunziata, esponendo anche esternamente la statua dell’Ecce Homo. La comunità, insieme ai piccoli, ha preparato un canto e poi il mio messaggio alla piazza. Un messaggio di speranza: le lacrime di Maria sono lacrime di speranza».
I parrocchiani dell’Annunziata stanno sostenendo le spese del restauro, attraverso piccoli lasciti e piccole offerte, per ridare bellezza a questo luogo di culto, tra i più antichi di Biancavilla.
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