Connettiti con

Cultura

Una fornace in via Giotto a Biancavilla: parlare “ncarcatu” e “â carcarara”

Il significato: esprimersi in dialetto stretto, ma anche in modo grossolano o in forme più volgari

Pubblicato

il

In un libro-intervista di Andrea Lodato (La linea della palma, 2002), Andrea Camilleri, a proposito dello scrittore e saggista italo-americano Jerre Mangione, così diceva:

“Ma non c’è dubbio” scriveva Elio Vittorini “che il più colto, il più raffinato, il più importante è uno scrittore non ancora tradotto in italiano, che si chiama Jerre Mangione.” Me lo trovo davanti. «Sei Jerre Mangione, lo scrittore?» «Sì. Io sugnu.» Parlava chistu siciliano ’ncarcatu. La sua famiglia era di Montallegro.

L’aggettivo ncarcatu, usato da Camilleri significa “stretto, in riferimento a parlate locali realizzate senza alterarne la natura e mescolarvi usi propri della lingua o di altre varietà locali”.

A Biancavilla è conosciuto piuttosto nella sua funzione di avverbio, nella frase parrari ncarcatu, col significato di “parlare in dialetto stretto e in particolare in quella varietà sociale che agli occhi di altri parlanti appaia rustica, contadinesca e antiquata”.

L’aggettivo e avverbio ncarcatu deriva dal verbo ncarcari, usato ad esempio nella loc. sost. ncarcari a vuci “calcare la voce su una parola o una frase che si vogliono mettere in rilievo”; nella forma pronominale troviamo ncarcàrisi “parlare con un accento e/o con una cadenza personali o tipici di un determinato dialetto o di una varietà sociale di esso”.

Da ncarcatu deriva a sua volta ncarcata “particolare cadenza personale o tipica di un determinato dialetto o di una varietà sociale di esso, che caratterizza il modo di parlare di una o più persone”. Alla base di tutto c’è il latino CALCĀRE “pressare, calcare”, derivato di CALX “tallone”.

Questo modo di usare il dialetto riguarda la fonetica e la prosodia, quello che può essere considerato, per esempio, la particolare inflessione dei parlanti dei quartieri popolari di una città, oppure di gruppi sociali (contadini, pastori, pescatori, ecc.) che vivono in qualche modo separati dalla società borghese e cittadina o addirittura ai suoi margini (ambulanti, girovaghi, malavitosi ecc.).

Quando però, oltre alla inflessione, alla cadenza ecc., a fare la differenza sono gli aspetti lessicali del dialetto, a Biancavilla e in genere nella Sicilia orientale si usa l’espressione parrari â carcarara col significato di “parlare in modo grossolano, esprimendosi nelle forme dialettali più volgari” o ritenute tali.

Prendiamo per esempio i nomi dialettali del comodino: escludendo l’italianismo recente comodinu, a Biancavilla erano conosciuti da una parte culunnetta, dall’altra rrinalera; il primo era per così dire il nome “borghese, cittadino”, l’altro, derivato da rrinali “orinale”, era quello rustico, che si usava parlando â carcarara. Altri esempi sono cessu rispetto a ggabbinettu oppure àçiu rispetto a laṭṛina.

Esempi letterari

Ecco adesso due esempi letterari, il primo di Silvana Grasso (L’albero di Giuda, 1997), l’altro di Giuseppe Collerone (I racconti di nonno Pino. Un mondo che fu!, 2014):

(C’è da dire che a Bulàla l’avvenire si progettava dalla cintola in giù, a dirlo con eleganza. A dirlo alla carcaràra, lo si progettava in quellangustoaugusto loco occupato dalla Madreminchia.)

Un “ballafranchisi”, compare “Scià lu issaru”, (il 50% di essi si chiamavano Alessandro, che tradotto in vezzeggiativo alla “carcarara” diventava “Scià”) aveva finito di caricare le pesanti sacche di gesso sui suoi sei asini e li aveva portati sotto un grande carrubo al riparo del sole.

In area occidentale parrari â carcarara vale “volere assai, pretendere troppo”, ma c’è da precisare che la loc. avv. â carcarara nel siciliano è usata anche per determinare e modificare il significato di altri verbi, come dimostrano questi due esempi letterari. Nel primo, di Stefano D’Arrigo (Horcynus Orca, 1975), l’espressione dell’italiano regionale alla carcarara ha il significato di “in maniera dozzinale”, come ha chiarito Salvatore C. Trovato (La formazione delle parole in “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo. Tra regionalità e creatività):

Da quello che se ne ricordava, senza mai esserci stato, ma solo per averlo visto tante volte dalla facciata di mare, il paese femminoto dava l’impressione di essere, più che altro, un aggrottamento, con le case alla calcarara, di tante e varie forme e tutte strane, alla sinfasò, come se invece di case di calce e di malta, di massi mattoni e sabbia, fossero opere di natura, gettate fuori dalla roccia, falde e coperchi di caverne e cunicoli.

Nell’altro, di Domenico Cacopardo (L’endiadi del dottor Agrò, 2001), la locuzione si riferisce al nome di un primo piatto di pasta tradizionale, alla contadina:

Si era esibito in una sontuosa pasta allacarcarara” con le costardelle e le acciughe salate, le olive verdi, i capperi, il pomodoro e il profumo dell’aglio.

Via Giotto, “vanedda a carcara”

Se vogliamo conoscere a questo punto l’origine della nostra espressione, diciamo subito che essa deriva da carcararu “fornaciaio; proprietario di una fornace o operaio in una fornace”, da carcara “calcara, fornace”, a sua volta dal latino (FORNAX) CALCARIA, da CALX “calce”. In partenza, dunque, â carcarara aveva il significato di “al modo dei fornaciai” e l’espressione parrari â carcarara sembrerebbe alludere, secondo Sebastiano Rizza, «a un gergo di mestiere o quanto meno a una parlata di matrice siciliana intrisa di termini esclusivi, quello dei caccarari/carcarari, gli operai addetti alle calcare», significato preferibile a quello tradizionale (ad esempio Marcella Burderi, La Carcara in Archiviodegliiblei.it), secondo cui il mestiere del fornaciaio era ritenuto tra i più umili in assoluto e alla carcarara era usato in riferimento a chi parlava «in modo poco elegante un siciliano di estrazione molto umile».

A proposito, infine, della carcara, l’odonomastica popolare di Biancavilla conosceva la vaneḍḍa â carcara, il cui nome ufficiale, via Giotto, ha probabilmente cancellato il ricordo di una fornace in cui, in passato, veniva cotta la pietra bianca per la produzione della calce. Quest’ultima veniva “spenta” (stutari a quacina) dai muratori nei fusti, versandovi acqua e mescolando di tanto in tanto, mentre ribolliva, fino a ottenere la calce spenta ben amalgamata (quacina ianca), pronta per impastare la malta.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

ORDINA ONLINE

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Cultura

1° Maggio a Biancavilla, l’occupazione delle terre e quelle lotte per i diritti

Il ruolo della Sinistra e del sindacato: memorie storiche da custodire con grandissima cura

Pubblicato

il

Anche Biancavilla vanta una ricca memoria storica sul 1 maggio. Nel nostro comprensorio non sono mancate, nel secolo scorso, iniziative e manifestazioni di lotta per i diritti dei lavoratori.

Spiccano su tutte l’occupazione delle terre e la riforma agraria di cui ci parla Carmelo Bonanno nel recente libro “Biancavilla e Adrano agli albori della democrazia. La ricostruzione dei partiti, le prime elezioni e i protagonisti politici dopo la caduta del fascismo”.

Il volume, edito da Nero su Bianco, raccoglie le testimonianze di alcuni dei protagonisti della vita politica e sindacale locale del Novecento, evidenziando le numerose iniziative volte a spazzare via i residui del sistema feudale di organizzazione delle terre e ad ottenere la loro redistribuzione.

Il mezzo principale per raggiungere tale obiettivo fu l’occupazione delle terre ad opera di un folto gruppo di contadini e braccianti. Tra questi, Giovanbattista e Giosuè Zappalà, Nino Salomone, Placido Gioco, Antonino Ferro, Alfio Grasso, Vincenzo Russo. A spalleggiarli anche diversi operai. Tra loro, Carmelo Barbagallo, Vincenzo Aiello, Domenico Torrisi, Salvatore Russo. Ma anche intellettuali come Francesco Portale, Nello Iannaci e Salvatore Nicotra.

Così, ad essere presi di mira furono anzitutto i terreni del Cavaliere Cultraro in contrada Pietralunga, nel 1948. Più di 400 persone li occuparono per cinque giorni e desistettero soltanto per l’arrivo della polizia, che sgomberò le proprietà.

A questa occupazione ne seguirono altre, tutte sostenute dai partiti della Sinistra dell’epoca (Pci e Psi in testa) e dalla Camera del Lavoro, e col supporto delle cooperative agricole di sinistra.

Le parole del “compagno” Zappalà

Significativa la testimonianza, riportata nel libro di Bonanno, del “compagno” Giosuè Zappalà: «Gli insediamenti furono vissuti con grande entusiasmo e costituirono per noi protagonisti dei veri e propri giorni di festa in cui potevamo manifestare la libertà che per tanti anni ci era stata negata. Le terre, i cui proprietari erano ricchi borghesi e aristocratici, spesso si trovavano in condizioni precarie, erano difficilmente produttive e necessitavano di grandi lavori di aratura, semina e manutenzione. Noi braccianti, perciò, con grande impegno e dedizione, spinti, oltre che dalla passione per il nostro lavoro, anche e soprattutto dalle condizioni di vita misere di quei tempi, ci occupammo, fin quando ci fu concesso, dell’opera di bonifica. Erano terre che di fatto costituivano per moltissimi l’unica fonte di reddito disponibile».

Tali iniziative, innestatesi nel corso del processo di riforma agraria che portò al superamento del sistema di governo delle terre sino ad allora vigente, condussero però a risultati contraddittori, poiché alcuni contadini ottennero terre produttive mentre altri terre scadenti. Ciò acuì il clima di invidia e inimicizia tra i protagonisti di quelle lotte e condusse alla rottura definitiva della coesione e della solidarietà della categoria.

Ciò non toglie che queste iniziative e manifestazioni segnarono un passaggio molto importante nella storia politica, socio-economica e sindacale locale e posero le basi per la “conquista” del palazzo municipale nel 1956 con l’elezione di Peppino Pace, primo sindaco comunista di Biancavilla.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Continua a leggere
Pubblicità

DOSSIER MAFIA

I più letti