Cultura
Cuore in gola e respiro affannoso: “assaccari” dopo una lunga corsa
Un verbo da cui derivano anche alcuni nomi: le origini vanno ricercate nel latino o nell’arabo
Sarà certamente capitato a ognuno di noi di fare una lunga corsa, costretti da una notizia improvvisa o da qualche altro motivo, e giungere a fine corsa completamente stremati, ansimanti, col cuore in gola e il respiro affannoso. Questo modo di respirare con affanno, a Biancavilla e in altre parti dell’Isola, si dice ssaccari o assaccari: rrivau ssaccannu, ccâ lingua di fora. Una forma di respiro, questa, che assomiglia al rantolo dei moribondi, tanto che “rantolare” nel Ragusano e nell’Agrigentino si dice proprio assaccari. Il verbo significa anche “agonizzare” e “spirare”, ma non si può omettere di dire che (a)ssaccari è anche un “respirare con la bocca”, da cui il significato di “boccheggiare, dei pesci”.
Dal verbo derivano alcuni nomi che hanno significati molto simili: assaccata “boccheggiamento”, termine usato nell’espressione fari l’ùrtimi assaccati “boccheggiare dei moribondi”; assaccu che vale “respiro affannoso”: fari l’ùrtimi assacchi o assacca “boccheggiare, di chi è in fin di vita”, “agonizzare”; stessi significati hanno assaccuni e ssaccuni, derivati di assaccu: dari un assaccuni vale “morire”, mentre dari l’ùrtimi assaccuni significa “agonizzare” e tirari i ssaccuni “tirare le cuoia”.
La parola a Camilleri
Come ci è capitato di dire qualche volta in questa rubrica, gli usi letterari di parole provenienti dal dialetto, oltre a conferire un indubbio valore aggiunto alla pagina, connotando il testo in senso ora realistico, ora espressivo, hanno la funzione di rimettere in circolo voci ed espressioni condannate all’oblio e destinate a uscire definitivamente dall’uso. Importante, dunque, è il contributo di Andrea Camilleri che dà cittadinanza letteraria a queste voci del dialetto, come negli esempi che seguono, tratti da Il sonaglio:
Beba stava stinnicchiata ‘n terra supra a un scianco, tiniva l’occhi ‘nserrati e respirava assaccanno, il sciato le si spizzava a mità.
Il respiro di Beba era migliorato, non assaccava cchiù. Novamenti le vagnò torno torno al musso, po’ pigliò ‘na manata di sali e gliela sparmò supra alla vucca.
Ma le qualità di uno scrittore si apprezzano anche nei significati inediti che assumono le parole, in modo tale da provocare una sorta di straniamento nel lettore, invitato a porsi continuamente delle domande sul testo e a negoziare con lo scrittore nuovi significati, come nel seguente testo tratto da La danza del gabbiano:
La risacca assaccava però tanticchia cchiù forte del solito. Niscì fora ed ebbe un addrizzuni di friddo. Si era a metà novembri e in altri tempi sarebbi già stato inverno fitto, ‘nveci la jornata pariva ancora sittembrina.
Fuori dalla Sicilia, troviamo il derivato assaccu “anelito, affanno, ansima” in Calabria, con questo esempio riportato dal Vocabolario del dialetto calabrese di Luigi Accattatis: e se sentìa l’assaccu, e scuma de la vucca escìa.
Le ipotesi sulle origini
Vediamo, infine, di scoprire l’origine di queste parole. Gli autori siciliani del Settecento (Vinci, autore dell’Etymologicum Siculum, 1759, e Pasqualino, autore del Vocabolario etimologico siciliano, italiano e latino, 1785-1795) avevano proposto che si trattasse di un derivato di saccu o del latino secare “separare”.
Nell’Ottocento studiosi italiani, come il Gioeni (Saggio di etimologie siciliane, 1885, e tedeschi, come il Freytag (Lexicon arabico-latinum, 1830-1834) propongono, invece, come base, l’arabo sāqa “esalare l’ultimo respiro, l’ultimo soffio di vita”, che è poi il significato del nostro verbo.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
W San Placido: il santo del popolo che almeno per un giorno ci rende comunità
Il Patrono di Biancavilla: di fronte a tradizioni ridotte a farsa, l’unica certezza resta quella del 5 ottobre
In un tempo di storiografie deboli, di identità incerte, di farse battezzate a tradizioni, il biancavillese ha in sé una sola certezza: il 5 ottobre viene san Placido. E non se ne fa, se il programma civile (dopo quello delle funzioni) quest’anno si intesta con un generico e mostoso “Ottobre in festa” (bisognerebbe capire cosa abbia fatto derogare all’attesa e gioiosa “Festa di San Placido” l’ibrida locuzione dall’indifferente gusto oltralpino, considerando che gli eventi in programma iniziano a fine settembre e non vanno oltre la prima settimana del mese successivo).
Ma San Placido, si sa, è festa di città. La festa. Di questa città. Il Benedettino non è santo di giaculatorie, litanie e piagnistei. È quasi impossibile, infatti, trovare un concittadino che conosca due righe, due, di una qualche preghiera dedicata al Patrono. Non a caso l’omonima novella di Federico De Roberto, ambientata a Biancavilla, ha avvio nel palazzo comunale e non in chiesa (si veda il volume pubblicato da Nero su Bianco Edizioni). Infatti, a differenza degli altri protettori, il martire è il cuore collettivo della società che si rigenera: il solo che per esistere non ha bisogno di ancoraggi alla fondazione.
Una festa di tutti, nessuno escluso
Santo ghibellino e socialista, di popolo: mette tutti d’accordo. Nessuno si sente escluso dalla festa. Tra un pasto luculliano e un vestito nuovo, una luminaria e uno sparo, una bancarella e un cantante, una crispella e un pezzo di torrone, in un giro di giostra, ce n’è per tutti. Si capisce che il culto di Placido risulta funzionale a un certo clericalismo, mentre non si dà per scontato il contrario.
Duole, però, che le tradizionali mongolfiere siano sparite al seguito della corsa dei cavalli, e la fiera del bestiame non ritorna a prendere posto, seppure rivista, nel calendario: quanto sarebbe atteso per i più piccoli, ad apertura di festività, un evento di promozione all’adozione degli animali e di conoscenza delle specie protette del Parco dell’Etna, quando le politiche degli ultimi governi si muovono a favore di educazione e terapia con gli animali.
Il Santo “civile” lontano da ori e pompe
È figura identitaria pop quella di Placido. Rifugge da ori e da pompe. Accondiscende alle messe, ma resta il Santo civile. E mantiene carattere del divino nella più occidentale delle tradizioni: quella di avere vizi umanissimi, ricorrere a una padella per difendere la sua salsiccia, facendo nero l’omologo adranita, e si tiene caro il territorio dal quale non accenna ad allontanarsi, pena mollare una gran pedata ai limitrofi trafugatori. Quanti nonni raccontano, ancora, queste vicende ai nostri occhi incantati di pargoli di sempre.
Santo del mito, più che del rito. Nel mutamento demografico e nell’ibridismo culturale, la sua festa – cerniera tra le stagioni e spartiacque dell’agenda nostrana – si perpetua e ci fa comunità. Per un giorno. E dai vecchi barbanera della Penisola ai calendari rurali riemerge Biancavilla nel novero delle feste nazionali, per il suo San Placido. Lo stesso al quale era intestata la prima banca popolare di microcredito: “Cassa rurale San Placido”.
Ma oggi, per una decina di minuti, per noi, i botti non saranno quelli dei notiziari atroci, della gragnuola che si abbatte nel medio oriente e nell’est dell’Europa. La disperazione anche per quest’anno è rimandata. E sarà bello trovarci ancora a mezzogiorno, senza classi, senza titoli, senza miseria all’uscita festosa del monaco rubicondo, con l’istinto condiviso di afferrare un rettangolino di carta colorata e leggerci: “W San Placido”!
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