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Cultura

“Cu à zzuccatu la figghja mia?”: un rituale di fidanzamento a Biancavilla

Un antico cerimoniale, di cui si è persa traccia, che ci rimanda a suggestivi significati

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Fra i diversi modi di chiedere la mano di una ragazza a Biancavilla, ce n’era uno del cui cerimoniale ormai si è perso il ricordo. Il nome di questo antico cerimoniale è espresso dal verbo zzuccari, che il V vol. del Vocabolario Siciliano così spiega: «porre un segno (in origine un ciocco o un ceppo) dietro la porta della ragazza amata, per dichiarare al padre e alla comunità l’intenzione di sposarla. L’indomani, il padre della ragazza andava in giro per la strada, portando con sé il segno trovato dietro la porta e chiedendo: cu à zzuccatu la figghja mia. Lo spasimante, a questo punto, si presentava al futuro suocero e dichiarava le sue intenzioni».

Questo significato del verbo zzuccari sembrerebbe attestato solo per Biancavilla. Ma Pitrè, nel secondo volume degli Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, registra un simile cerimoniale per Menfi, nell’Agrigentino. Vale la pena leggerlo per intero:

In Menfi, il giovane che ha gettato gli occhi sopra una ragazza, prende un ceppo di ficodindia (sic. zuccu, in Menfi zuccuruni), l’adorna di fazzoletti, pezzuole, nastri, oggetti d’oro, e va a collocarlo dietro l’uscio di lei. Il domani, trovatolo, il padre se lo carica addosso, e lo porta in piazza domandando con lieta voce: Cu’ m’ha azzuccatu la figlia mia? Cu m’ha azzuccatu la figlia mia? che è quanto dire: Chi è venuto a chiedermi in isposa la figlia? Lo sposo non si fa lungamente cercare, e se piace il matrimonio è concertato: se no, no, ed il zuccuruni si restituisce.

Un’altra interessante testimonianza di questo cerimoniale ci viene offerta da questa loc. verb., usata in passato in area messinese: ccippari a na figghjola «lasciare il maggio dinanzi alla casa di una fanciulla», come si legge nel Vocabolario ms. di Trischitta (1875-1930). Il verbo ccippari, sinonimo di zzuccari, deriva da ccippu “ceppo”, come zzuccari da zzuccu “tronco”, “ceppo”. Questo ci consente di associare il nostro cerimoniale al cosiddetto ceppo nuziale, diffuso soprattutto in Calabria, in Basilicata e in Abruzzo (dove il ceppo si chiama técchjo). Ma ci sono tracce di esso persino in Piemonte, in Friuli e nel Canton Ticino. Scrive, p. e., lo scrittore calabrese, Costantino Faillace, in un libro di memorie, Come figli del vento:

Un tempo […] c’era a San Lorenzo un antico rituale di fidanzamento che consisteva nel lasciare di notte un ceppo di legno con nastri davanti alla porta di casa della ragazza per chiederne la mano e se il mattino seguente la madre lo ritirava voleva dire che acconsentiva e la ragazza era acceppata.

Ecco cosa dice il napoletano Armando Maraucci (Nessuno è innocente), a proposito di un rituale lucano:

Maggiore diffusione ha l’usanza del ceppo nuziale, che l’innamorato pone, la sera, come richiesta di fidanzamento, davanti all’uscio di casa dell’amata, e la ragazza, se accetta, introduce il ceppo in casa, se no lo fa ruzzolare in mezzo alla strada. Succede qualche volta che rimanga incertezza su chi sia stato a posare il ceppo davanti alla porta della giovane, e allora il babbo di lei va girando in paese col ceppo sulle spalle ripetendo il grido: «Chi ha inceppato la figlia mia?».

Non può mancare, infine, una testimonianza friulana, a Barcis, nelle campagne di Spilimbergo. È tratta da De Gubernatis (Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indo-europei):

El toso ciapa un soco (zocco) e el lo mete su la porta de la casa in dove che stà la ragazza che el ga in idea, e se ela lo tira drento, l’è segno che la xe contenta de farghe l’amor; e se la lo lassa là, gnente, no la ghe ne vol saver.

Significati (discordanti) del rituale

Sul significato da assegnare a questo rituale non esiste un accordo fra gli studiosi. Alcuni vi hanno visto il «simbolo della stirpe» o della «potestà maritale», altri «l’immagine del Focus Laris» (cfr. Sebastiano Rizza). Molto interessanti sono invece due interpretazioni che, seppure diverse nei particolari, convergono sul significato generale. La prima, quella di Oestermann, collega il ceppo nuziale del Friuli con il rito delle nozze con le piante. Un rito praticato in passato da molti popoli europei. L’altra, di Raffaele Corso, il grande etnoantropologo calabrese, considera il rituale del ceppo una simbologia della fecondità e della sessualità. A sostegno di questa interpretazione, lo studioso aggiunge anche che ’ncippari e ’ncippunari non stanno a indicare solamente il fidanzamento ma anche le relazioni sessuali.

«La donna viene immaginata – scrive ancora il Corso – come “l’albero della vita”, la pianta umana che butta periodicamente fiori e frutti, rami e gemme, e che rinnovellandosi di novella fronda, avvicenda le generazioni alle generazioni». E più oltre aggiunge: «Le piante in genere, e spesso le loro parti e le loro essenze (rami, frutti, fiori fronde, semi, radici, succhi), sono credute atte a conservare e a promuovere la fecondità muliebre; onde esse sono impiegate come specifiche nelle pratiche magico-sessuali».

Anche le piante e le loro parti, dunque, sono state da sempre oggetto di culto, in quanto portatrici di significati simbolici particolari. Dice ancora Corso che «il ceppo, che è il germoglio in potenza, il ramo, i fiori e le foglie, che sono le manifestazioni della vita vegetativa, rappresentano l’albero nuziale, che fa pensare al simbolico ceppo delle case inglesi, all’albero vitale dei costumi nordici, all’albero genealogico, e se vuolsi, anche alla dos plantaria di cui parla Plinio». Di questa ricchissima simbologia non rimangono che scarsi frammenti. Uno di questi è il buquet di fiori che la sposa si porta all’altare. E che, dopo la cerimonia nuziale, lancia sul gruppo di ragazze nubili, le amiche della sposa, come gesto augurale di fecondità.

Sul piano prima lessicale e dopo etimologico, il ‘ceppo nuziale’ in Sicilia si chiama ccippu da cui ccippari, zzuccu, da cui zzuccari, e il derivato zzuccuruni. Il sic. ccippu deriva dal lat. cippus; per zzuccu la situazione è più complessa. A prima vista, infatti, sembrerebbe un derivato del lat. sŏccus “sandalo”, nel senso di “pezzo di legno tagliato ma non rifinito”, da cui l’it. ciocco “ceppo da ardere”, “pezzo di legno” e il friul. soco “ceppo nuziale” che abbiamo visto sopra. Ma la –u– del sic. zzuccu e quella del fr. souche “ceppo, pezzo di legno”, presuppongono una base *sŭcc– o tsŭcc-. Infine, per soddisfare la curiosità dei lettori, l’abruzz. técchjo “ceppo nuziale” deriva dal lat. titulus “cartello, scritta” portato in cima a un bastone nei trionfi.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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La “volta” ritrovata: l’arcivescovo “svela” gli affreschi settecenteschi restaurati

Prezioso patrimonio di Biancavilla: nella chiesa dell’Annunziata risplendono le opere di Giuseppe Tamo

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© Foto Biancavilla Oggi

Un’opera restituita alla luce, memoria risvegliata, un segno di bellezza che attraversa il tempo: così Biancavilla ha accolto la presentazione ufficiale del restauro degli affreschi della Chiesa dell’Annunziata.

La cerimonia si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, seguita dalla conferenza di presentazione dei lavori della volta: un’opera ora visibilmente più luminosa, liberata dalla patina del tempo, da ritocchi dissonanti e dai cedimenti che avevano compromesso la sua integrità visiva e strutturale.

Un gioiello dentro uno scrigno

A introdurre e presentare l’incontro Dino Laudani, presidente della Confederazione diocesana delle confraternite, che ha ricordato come la Chiesa dell’Annunziata – autentico monumento cittadino – sia stata oggetto, negli ultimi decenni, di molteplici interventi conservativi. «Un gioiello dentro uno scrigno di fede e di arte», ha detto Laudani, sottolineando la continuità di un impegno collettivo nel custodire la bellezza.

Il parroco, don Giosuè Messina, ha ricostruito le origini dell’attuale restauro: «Tutto è iniziato nell’ottobre 2021. Dopo una pioggia battente, della polvere iniziò a cadere da una fessura, aperta dal terremoto del 2018. Fu un segnale. Da lì, con prudenza e speranza, partì il lungo iter verso il restauro». Un cammino reso possibile dal lascito testamentario della signora Maria Zammataro (39mila euro), dai 10mila euro di residui del fondo messo a disposizione della parrocchia da padre Placido Brancato (per quasi cinquant’anni parroco) e dalla generosità dei fedeli (poco più di 4mila euro). Il preventivo iniziale di 73.800 euro è salito a 82mila, coperto in gran parte da questi fondi.

Il sindaco Antonio Bonanno, presente all’incontro, ha annunciato lo stanziamento di 20.000 euro da parte del Comune per contribuire al saldo delle spese residue per un’opera che valorizza e impreziosisce la nostra città.

Una storia mai del tutto scritta

Il professor Antonio Mursia ha arricchito la conferenza con un’ampia contestualizzazione storica. Un documento del 1872 del Prefetto di Catania chiedeva una copia dell’atto di fondazione della chiesa: ma nemmeno allora, il prevosto fu in grado di fornirne una. Solo agli inizi del Novecento, lo storico Placido Bucolo riesce a ricostruire la storia della chiesa. A volerne la costruzione fu alla fine del Cinquecento Dimitri Lu Iocu, giurato della Terra di Biancavilla: un’iniziativa non solo religiosa, ma anche civile e politica. Nel 1714, grazie a un lascito di Maria Carace, si avviò l’ampliamento della chiesa, su progetto del magister Longobardus, figura di spicco nella progettazione ecclesiastica della diocesi.

Il restauratore: «Sobrietà e impatto visivo»

Il momento più tecnico dell’incontro è stato l’intervento del restauratore Giuseppe Calvagna. Gli affreschi della volta, realizzati nel Settecento da Giuseppe Tamo, erano stati eseguiti con la tecnica della pittura a secco, scelta versatile ma fragile nel tempo. Le infiltrazioni d’acqua, i terremoti e restauri maldestri effettuati tra Ottocento e Novecento – alcuni con latte di calce – avevano offuscato l’opera originale, coprendone i tratti e minacciandone la stabilità.

Il lavoro di restauro ha richiesto interventi strutturali complessi: consolidamento dell’intonaco con resine, fissaggio del colore per fermarne il distacco, rimozione di croste dure e sedimentazioni. Si è poi proceduto alla ricostruzione morfologica delle lacune e infine alla reintegrazione pittorica con colori ad acquerello, rispettando le tecniche conservative. «In alcune parti non abbiamo trovato tracce originarie – ha spiegato Calvagna – ma l’obiettivo è stato restituire leggibilità e armonia. Il risultato è un’opera sobria, equilibrata e di forte impatto visivo».

L’architetto Antonio Caruso, che ha diretto e mediato tra i diversi professionisti coinvolti, ha posto l’accento sull’importanza della manutenzione ordinaria. «Le opere architettoniche e decorative non sono eterne: richiedono attenzione costante, altrimenti rischiano danni irreversibili».

Il vescovo: «Immagini che toccano il cuore»

A chiudere, l’intervento dell’Arcivescovo Renna, che ha dato al restauro un significato teologico profondo: «Queste immagini non sono semplici rappresentazioni. Esse raccontano la fede: dalle antiche profezie che parlano di Maria, fino agli Evangelisti, immagini mariane e cristologiche che ci introducono al mistero della salvezza e che parlano fino ai nostri giorni restituendoci significati profondi. Come la simbologia dei fiori e della natura che fiorisce, segno più bello della redenzione dell’uomo. Nel ciclo possiamo trovare patristica, teologia, dogmatica, in un racconto che tocca ancora oggi il cuore dei fedeli.

Oggi, tra le volte luminose dell’Annunziata, quegli affreschi sembrano custodire una memoria silenziosa. Non parlano solo del passato, ma anche del presente e del futuro. Restano lì, tra luce e ombra, a ricordarci che ogni bellezza custodita è anche una forma di resistenza – contro l’oblio, contro il tempo, contro l’indifferenza.

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Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati

Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

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Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.

Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.

“U Signuri” e i quartieri in festa

In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.

Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.

Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.

Gli altarini con le lenzuala bianche

Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.

Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.

Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati

Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.

Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.

Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.

Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.

Tradizione che si rinnova

Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.

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