Cultura
C’è caldo: evitate di essere “ncutti” o mettervi “a-ccìmicia di cuḍḍaru”
Si tratta di una voce siciliana, calabrese e salentina che deriva dal latino “cogere”: costringere


Non so se avete fatto esperienza di una persona che, come si dice a Biancavilla, si mette a-ccìmicia di cuḍḍaru, che ci tormenta e asfissia con la sua insistenza, che non ci lascia in pace. Un tipo del genere rientra nella categoria degli ncutti. Che sei incutto!, Non essere incutto!, dicevano negli anni Settanta le studentesse catanesi, riferendosi a un tipo appiccicoso, inopportuno e petulante.
Nella prosa di Ottavio Cappellani (Chi è Lou Sciortino?) incutto è riferito a un “bisogno impellente”: «È per lo stesso incutto bisogno che ci spinge a fare toletta prima di entrare in una sala operatoria o dopo che un medico ci ha dato per spacciati, che Nick prende la schiuma da barba e agita la bomboletta». Nello stesso romanzo troviamo anche questo: «llou, llou, io adesso c’ho l’incutta esigenza che mi si calmino le acque… la questione è molto delicata e io non ce lo posso mandare uno dei miei picciotti da zu Mimmo.»
Ben presto però anche nella prosa letteraria ci si è liberati della i- iniziale e si è passati senz’altro alla forma ncutto, così descritto da Renata Pucci di Benisichi (La lingua di pezza): «“’ncutto” è detto di “persona che ti si pianti attorno, senza che uno se ne possa liberare”». E ncutta era chiamata dai «funzionari dell’ufficio tecnico e del settore ecologia» la sindaca, «perché», scrive Marinella Fiume (Feudo del mare. La stagione delle donne), «con fastidiosa insistenza, non li lasciava in pace se non avessero predisposto in tempo gli atti dovuti».
Nel progressivo sfaldarsi del dialetto tradizionale, la letteratura si assume l’importante compito di salvare e di rimettere in circolazione parole ed espressioni destinate all’oblio. Ma non può, per ovvie ragioni, salvare, assieme alle voci, tutta la gamma dei significati che esse hanno.
“Importunare qualcuno” a Biancavilla
È chiaro intanto che incutto e ncutto sono forme italianizzate del sic. ncuttu che ha fra i tanti significati quelli di a) “vicino, a brevissima distanza, quasi attaccato, unito”; b) “stretto, pressato o pigiato”; c) “folto, spesso o fitto”, per es: capiḍḍi ncutti “capelli folti”. Fra i modi di dire in cui appare il nostro aggettivo, ricordiamo stari ncutti, comu li sardi “serrarsi, come le sardelle”, come apprendiamo dal De Bono (1751-1754). O quello usato anche a Biancavilla, mintìrisi ncuttu, cioè “stare alle costole di qualcuno, seccandolo e importunandolo”; altrove mintìrisi ncuttu comu u linu [propr. “mettersi troppo vicino come il lino (che cresce molto fitto)”] “essere insistenti in modo esagerato”.
I proverbi inoltre invitano a evitare amicizie troppo strette e a mantenere le giuste distanze, perché amicìzzia ncutta prestu nnimicìzzia. E si può dire di uno che è ncuttu nô manciàri quando mangia poco e spesso, ma se mangia ncuttu ncuttu lo fa troppo in fretta, senza prendere fiato. Due persone, inoltre, possono discùrriri ncutti ncutti “discorrere o parlare fitto” ma se vanu ncutti significa che non vanno d’accordo. Se qualcuno, ancora, ni talìa ncuttu significa che ci guarda fisso.
Da Brancati a Basile
Ecco cosa scrive Vitaliano Brancati (Il Bell’Antonio): «Una sera che stavo seduto in un caffè accanto al suo tavolo, vi assicuro che per almeno dieci volte sentii il suo amico, quello che ora ce l’hanno dato per podestà, domandargli (e com’era ‘ncuttu!)».
Nel suo Dizionario sentimentale della parlata siciliana, Gaetano Basile dice: «Quando poi si giunge a essere “ncuttu–ncuttu” significa che stiamo parlando di persone inseparabili. Di due persone di cui si sospetta una liaison si dice, ma sottovoce, che sono ncutti».
Nel pantesco è usata la variante nguttu, per esempio, nella loc. nominale corp’i mari nguttu “onda corta” o nel modo di dire satari a-ppedi ngutti “saltare a pie’ pari”.
Non può tacersi, infine, la variante ncurtu, localmente usata: a) come avverbio ‘vicino, a poca distanza’; di ncurtu ncurtu ‘a brevissima distanza, a bruciapelo’; tèniri ncurtu a unu ‘tenere d’occhio qualcuno’; b) come aggettivo, “noioso, petulante”.
Di ncuttu esistono anche dei derivati, come ncuttàggini o ncuttimi “insistenza, l’essere insistente o il chiedere con insistenza” (mittìrisi câ ncuttizza), o ancora ncuttizza che significa anche “dimestichezza o amicizia molto stretta che induce due persone a frequentarsi con eccessiva assiduità”. Si tratta anche della ncuttezza, o incuttezza, «parola che sta a significare “troppa vicinanza, strettezza inopportuna”», descritta in una sapida pagina della citata Renata Pucci di Benisichi.
Quanto all’origine della voce, sono senz’altro da scartare le ipotesi di chi fa derivare ncuttu dal greco ἐγγύθι [engýthi] “vicino” (Avolio) o da cuttunina “coperta formata da due strati di stoffa cotonata …” (Pucci di Benisichi). Ncuttu, secondo il VSES di Varvaro, è invece una forma siciliana e calabrese (e salentina) che continua il lat. cōctu(m) [= coactum], participio forte di cōgere “costringere’; ‘stringere insieme’, ‘riunire, raccogliere”.
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Cultura
Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”
Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici


Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.
Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).
In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:
Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?
Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.
Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.
Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri? ‒ Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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