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Nino Tempera, testimonianza e confessione di un malato oncologico

Il suo racconto comincia quando, 17enne, emigrò in Germania e arriva ad oggi, alle prese con la “chemio”

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È persona assai nota a Biancavilla, anche per essere stato spesso in tv, in onda in spazi autogestiti su Video Star, ai tempi della prima amministrazione Manna. Ha partecipato attivamente alla vita pubblica di Biancavilla. Si è esposto in diverse battaglie, per esempio nel comitato degli abusivi, nei primi anni ’90. Lo ricordiamo alla guida del suo furgone, in giro per i quartieri, invitando alla mobilitazione. Lo abbiamo visto impegnato nell’associazionismo, dalla protezione civile ai diritti del malato. Adesso, Nino Tempera, sta combattendo la più importante delle sue battaglie. Ci ha chiesto di ospitare un suo contributo su Biancavilla Oggi. Lo facciamo volentieri, esprimendogli il più sincero degli auguri.

Salve, sono Nino Tempera, un vostro concittadino che oggi ha settantaquattro anni. All’età di diciassette anni mi ritrovo a scendere i gradini di un treno che mi ha condotto a Colonia (in Germania): raggiungevo mio padre, già immigrato lì da due anni. Avevo deciso da poco di interrompere gli studi che facevo all’Istituto agrario di Catania e, quindi, mio padre ha fatto in modo che lo raggiungessi in quel paese così distante e diverso da quel che conoscevo. Un paese in cui si poteva lavorare.

La nostra famiglia, come quella di tanti altri, è andata a lavorare fuori dall’Italia per poter fare una casa più comoda perché a quei tempi, la mia famiglia composta da cinque persone, viveva in un’abitazione di appena 40 metri quadri. Ed è così, con quella discesa dal treno, che inizia la mia avventura di vita.

I primi mesi ovviamente, non conoscendo la lingua, faticavo a “passare” la giornata come avrebbe voluto fare un adolescente della mia età ma, un giorno, guardandomi allo specchio mi sono detto: “Caro Antonino, impegnati nel lavoro, perché solo così il tuo tempo avrà uno scopo!”.

Quelli erano tempi in cui il lavoro non mancava, anzi, si riuscivano a fare anche due turni giornalieri se lo desideravi. E lo volevo. Lo scopo per cui eravamo andati in Germania era proprio migliorare la nostra situazione economica. Dopo due anni dal mio arrivo, ci raggiunsero gli altri membri della nostra famiglia: mia madre, Maria, e le mie due sorelle minori, Santa e Vincenza (che a quel tempo avevano appena sedici e quattordici anni. Le mie amate sorelle, che il destino ci ha strappato troppo presto e in modo crudele).

Mia madre trovò impiego in una fabbrica di pantaloni, conducendo una vita di stanchezza a causa del lavoro, ma allo stesso tempo, anche di grandi soddisfazioni perché riusciva ad aiutare economicamente la nostra famiglia. Oltre ai sacrifici fatti per avere uno stipendio di tutto rispetto, vi era anche la grande soddisfazione di essere trattati come “esseri umani” in quanto trattati con dignità e rispetto sul luogo di lavoro.

L’anno successivo iniziarono a lavorare anche le mie sorelle. Tutti noi lavoravamo duro e lo abbiamo fatto per otto anni: tanto è il tempo che durò la nostra vita da emigrati.

Tornammo in Sicilia, ma io ne fui estremamente rammaricato: la mia vita in Germania ha contribuito enormemente nella formazione della mia persona. Mai, in nessuna occasione, mi hanno trattato da migrante, ma sempre come uno di loro.

Ritornando in Sicilia incomincia, invece, la vita di “sopravvivenza”. Oggi, a settantaquattro anni, sono un malato oncologico da un anno e mezzo, come tanti ce ne sono purtroppo nel mio paese. Scrivo questa lettera aperta, che ho deciso di intitolare come “testimonianza” perché voglio parlarvi di quello che sto vivendo e sentendo.

La mia famiglia ha già dovuto confrontarsi con la malattia oncologica quando, con mia sorella Vincenza, abbiamo conosciuto quel famoso male che si chiama “cancro”. Era ancora una giovane madre, con tante cose da fare, ma purtroppo, e chi vive a Biancavilla lo sa, questo male è terribile e subdolo; è stato “creato” anche dall’arroganza dell’uomo che per il vile denaro non ha guardato in faccia nessuno.

La seconda esperienza l’ho vissuta quando, durante la pausa pranzo di quello che fino a quel momento sembrava un normalissimo giorno di lavoro, uno dei miei amici più cari mi confidò che era malato. E sentì nuovamente quella parola: cancro. Mi disse che avrebbe lottato e che aveva già iniziato a fare chemioterapia. Da quel giorno lo guardai con ancora maggiore affetto e lo assecondavo in tutto ciò che mi diceva (credo, francamente, di averlo fatto per tentare di metterlo a suo agio in ogni circostanza). Un giorno, alla fine della giornata di lavoro, mi chiese di andare con lui nel suo orticello. In macchina mi accorsi che aveva delle piantine di pomodoro e, una volta arrivati, li abbiamo piantati con estrema cura per non rovinarli. Ricordo che innaffiammo anche i peperoni che aveva piantato qualche giorno prima. Lo guardavo attentamente mentre faceva questi semplici gesti e lo vedevo sereno mentre si prendeva cura di quella vita vegetale.

Ogni sera avevamo preso l’abitudine di andare in quell’orticello ed era felice quando notavamo che tutte le piante crescevano bene, tutte erano vive. Pensavo sempre, tra me e me, che mentre lottava per la sua vita, quelle piantine che attecchivano e crescevano bastavano a renderlo felice. Lo osservavo con attenzione ed ho sofferto tanto per lui, senza mai dirglielo. I giorni in cui andava a fare chemioterapia soffriva e anche il morale ne risentiva.

Vi ho raccontato questo piccolo aneddoto perché vorrei dire a tutti che, se avete una persona cara che vive la stessa situazione, “statele accanto!”.

A questo punto è giunto il momento delle confessioni.

Ho scoperto, come vi dicevo, circa un anno e mezzo fa, di avere un cancro. Ero, insieme a mia moglie Maria ed a mia figlia Maria Teresa, all’ospedale “Garibaldi” di Catania. Il medico disse che era con ogni probabilità un tumore malvagio. Suppongo che abbiano notato la mia espressione perché tentavano di incoraggiarmi. Devo ammettere che scoprire il mio stato mi ha sconvolto, ma allo stesso tempo, ho assunto un atteggiamento positivo che dare coraggio ai miei familiari. Quella notte non ho dormito perché ovviamente pensavo a quella diagnosi e vi confesso che tanti pensieri, davvero tanti, si sono messi in moto nel mio cervello.

Ho cominciato a considerare tante cose, ma poi mi sono detto: c’è la famiglia! Hai una nipotina che adori! Ho pensato anche a mio cognato che, quasi un anno prima, aveva avuto la stessa diagnosi ma ai polmoni… in questo paese così colpito dal maledetto amianto. Biancavilla, paese mio, tormentato anche da altri tumori perfidi e malvagi. Mi sono quindi detto che era giunto il momento di lottare, come ho fatto per anni per Biancavilla, con la stessa forza e convinzione (anche se non venivo considerato dagli Amministratori locali e regionali: si è fatto poco per la bonifica, ma davvero nulla per assistere i malati!). Così, ripensando alle mie battaglie, ho deciso che tutto quell’impegno dovevo metterlo nella mia lotta contro il tumore: in fondo era un’altra lotta da affrontare nella mia vita. Specialmente adesso, che le nipotine sono diventate due!

Devo dire che, nella prima fase, non subivo le conseguenze relative ai cicli chemioterapici che subisco in questo momento, sia fisicamente che emotivamente. Da malato continuo a lottare perché la “speranza è l’ultima a morire!”.

A tal proposito voglio condividere un ultimo aneddoto con voi. Mi trovavo in sala d’attesa, aspettando il turno per il trattamento. Uno dei pazienti che era lì inizia a parlare ad alta voce rivolgendosi a tutti noi: “Ho fatto quattro chiacchiere con il mio tumore! Gli ho detto che ormai conviviamo da tempo e se è convito che vincerà facendomi peggiorare, si sbaglia! Se mi fai morire, tu caro tumore mio, non ti salverai! Morirai con me. Quindi gli ho fatto una proposta: conviviamo il più possibile!”. Quella è stata sicuramente una battuta che, quell’uomo, ha fatto per farci sorridere e per spezzare la tristezza che aleggia nelle sale d’attesa di questi reparti, ma sicuramente ci ha fatto anche riflettere molto.

Quello che mi sento di dire ai miei “colleghi” è che la chemio è pesante da sopportare, ci sono momenti che neanche mi riconosco e non riesco a sopportare il dolore. Invoco l’aiuto dei Santi mentre mi chiedo perché, tutto questo, stia succedendo a me. Il perché di un dolore così atroce. Poi penso alle pene che ha sofferto Nostro Signore Gesù quando lo abbiamo crocifisso senza neanche chiedere aiuto. E così trovo aiuto nella mia fede, prego Dio di darmi la forza di sopportare il dolore, di avere consolazione per reagire e chiedo di avere la forza di lottare contro la sofferenza.

Fondamentale aiuto è l’affetto della famiglia, l’incoraggiamento dei veri parenti che sanno come starti vicino, avere l’opportunità di incontrare o sentirsi con i veri amici. Tutto questo ti porta a distrarre la tua mente dal dolore. Spero di non avervi annoiato.

Non posso smettere di scrivere se prima non ringraziassi il reparto di Oncologia del Policlinico di Catania formato da medici, operatori sanitari ed infermieri eccezionali che ogni giorno ci stanno accanto. Un ringraziamento va a Biancavilla Oggi, testata giornalistica, grazie alla quale posso raggiungervi.

Alla mia famiglia voglio dire invece che, comunque vada questa lotta, non voglio che soffriate ma che pensiate a me con amore, come io farò con voi. Grazie per quel che state facendo. Vi amo immensamente ed il mio cuore è sempre vostro. Grazie a Maria, Maria Teresa, Gisella e Fabrizio, Lorena e Giuseppe, alla nostra magnifica Sofia ed alla piccola e dolcissima Nina. Vi voglio tanto bene. Papà Nino.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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2 Comments

2 Comments

  1. Salvo

    3 Aprile 2021 at 15:00

    Salve mastro Nino e da molto tempo che non ci vediamo.
    Sono sicuro che se lei è rimasto la persona con cui ho lavorato tanti anni fa lotterà fino alla vittoria.
    Le auguro tutto il bene del mondo.
    Salvuccio Amato

  2. alfio

    2 Aprile 2021 at 21:33

    Egregio Sig. Tempera,
    mi ricordo di lei delle sue battaglie e del suo impegno civile. Oggi, venerdì santo, giorno per i credenti, di adorazione alla croce, le auguro la benedizione di Gesù, che il Signore lo aiuti a portare questa croce e lo accompagni con ogni consolazione.
    Alfio

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Storie

Vent’anni senza Placido Stissi, il figlio Giuseppe: «Onorati di un papà così»

A “Biancavilla Oggi” il ricordo commosso: «Non ci ha visto crescere, ma siamo certi che veglia su di noi»

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Vent’anni fa la morte di Placido Stissi. Il suo ricordo è intatto. Il suo gesto resta una testimonianza del suo altruismo. Dipendente della Provincia di Catania e stretto collaboratore del presidente Nello Musumeci e poi di Raffaele Lombardo, Stissi stava andando al lavoro. In un punto della tangenziale di Catania, sotto la pioggia battente, accostò e fermò la sua macchina. Lo fece per prestare aiuto ad un giovane automobilista rimasto in panne nella corsia opposta. Mentre attraversa la carreggiata, però, un veicolo lo travolse. Morì a 41 anni, lasciando la moglie Anna Maria e i tre figli, ancora minorenni: Giuseppe, Gessica e Denis.

Il ricordo del suo primogenito è intriso di affetto e orgoglio. «Sono passati 20 lunghi anni, mi fa onore, ci rende onorati che – dice Giuseppe a Biancavilla Oggi – dopo tutto questo tempo ancora la gente ricordi il gesto eroico che mio padre ha fatto. Non ha riflettuto più di una volta a scendere dalla propria auto e a soccorrere quel ragazzo rimasto in panne e con l’auto capovolta. Non ha pensato alle conseguenze che potevano succedere in quella fatidica giornata piovosa. Come poi effettivamente accaduto, lasciando noi figli piccoli e mia mamma».

Chi ha conosciuto Placido, a Biancavilla, può confermare che le parole del figlio descrivano esattamente quei modi di sincera disponibilità nei confronti di chiunque.

«Mio papà era fatto così. Sempre premuroso. Sempre cordiale e generoso con tutti. L’amico degli amici. Sempre pronto ad aiutare tutti. Un angelo volato in cielo troppo giovane e troppo presto. Oggi è raro fare e ricevere gesti del genere. Soprattutto noi giovani – sottolinea Giuseppe – dovremmo prendere esempio da questi ormai rari gesti di altruismo verso il prossimo. Non si pensa altro che all’invidia e alla cattiveria, invece dovremmo trovare il modo per riportare i bei gesti di solidarietà. Non dovremmo dimenticare che potremmo avere bisogno, anche noi, di un semplice aiuto, una carezza, una mano che ci venga posta sulla spalla o essere ascoltati».

«Noi figli – conclude Giuseppe – siamo veramente onorati di avere avuto un padre così. Mia mamma lo è del marito che ha avuto. Certo, il dolore resta, come il rammarico che ci abbia lasciati così presto senza vederci crescere ed essere al nostro fianco. Ma siamo sicuri che ci veglia da lassù e guida i suoi nipoti nella migliore strada».

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Fuori città

I cent’anni di nonna Rosa Leocata, uno sguardo dolce che sa di giovinezza

Trasferitasi 15 anni fa da Biancavilla in Lombardia: festeggiata dal Comune e dalla parrocchia di Parona

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© Foto Biancavilla Oggi

Sette anni fa si è trasferita da Biancavilla a Parona, comune di 1900 abitanti in provincia di Pavia, dove vive con la nuora. Adesso che ha compiuto 100 anni, nonna Rosa è stata festeggiata dal piccolo comune lombardo. Per lei si sono mossi l’amministrazione comunale e la comunità parrocchiale di “San Pietro Apostolo” con padre Riccardo Campari. Il sindaco Massimo Bovo, in fascia tricolore, ha omaggiato la signora Rosa con un mazzo di fiori e una targa ricordo. A fianco a lei, le nipoti Rossella e Ramona Lavenia, Alfio La Delfa e Alessio Leotta, i pronipoti Alice e Francesco, la nuora Eveline Leleu.

Una vita lunga un secolo, quella di Rosa Leocata, nativa di Adrano, ma trasferitasi nel 1927 a Biancavilla, dove ha incontrato l’uomo della sua vita. Dal matrimonio con il marito Placido Lavenia, noto per il suo salone di parrucchiere per uomini e donne, sono nati tre figli: Vincenzo, Carmelo e Santina.

Nel racconto della sua vita non mancano, certo, cicatrici e rimpianti. Rimasta orfana di madre, non ha completato la scuola e, ancora oggi, quando il pensiero torna alla sua infanzia, il suo sguardo si riempie di malinconia: «Se solo avessi potuto studiare…». Ma da bambina imparò presto a lavorare, per poi lavorare come sarta, mostrando una dedizione e un senso del dovere che sarebbero stati il filo conduttore della sua esistenza. Il dolore più grande: la morte prematura dei figli.

«Segnata da sacrifici, dolori, amore sconfinato e una forza d’animo che le ha permesso di attraversare il tempo con dignità e dolcezza. La sua – raccontano i nipoti – è la storia di una donna che ha saputo affrontare ogni avversità trasformandola in un gesto d’amore per chi le stava accanto».

«Un esempio di resilienza»

Nonostante la lontananza dalla Sicilia, a dispetto della sua età, sa maneggiare il tablet ed è solita leggere Biancavilla Oggi per tenersi informata sul suo paese d’origine.

«Nonna Rosa – raccontano ancora i familiari – non ha mai smesso di essere una presenza stabile e affettuosa per chiunque le sia vicino. La sua casa è il rifugio di ricordi dolci e amari, raccontati con una lucidità sorprendente e uno sguardo che, a 100 anni, ancora sa di giovinezza».

«La sua non è solo la testimonianza di un secolo di storia, ma è il simbolo di una donna che non si è mai lasciata piegare dalle difficoltà. Oggi, nella sua lunga vita, possiamo leggere l’essenza stessa della resilienza: la capacità di amare oltre il dolore, di donarsi senza riserve, di accogliere il futuro con un sorriso, nonostante tutto».

Ecco perché questo speciale compleanno ha anche il valore di una conquista. E un’occasione di affetto e gratitudine, che in questo giorno unisce Biancavilla e Parona: «Alla nostra nonna centenaria, l’augurio di continuare a essere l’anima gentile che ispira chiunque abbia la fortuna di conoscerla. Buon compleanno, Rosa: cento anni di te sono un regalo per tutti noi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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