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Cultura

Gerardo Sangiorgio nei lager nazisti, laboratori e un libro per ricordare

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Scuole elementari, medie e superiori coinvolte a Biancavilla per ricordare Gerardo Sangiorgio, il biancavillese che sopravvisse ai campi di concentramento, dove fu rinchiuso perché, da cattolico antifascista, rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò.

Una targa a suo ricordo sarà svelata domani mattina, alle ore 9.30, all’Istituto Tecnico Industriale di Biancavilla, ultima scuola in cui insegnò e nella quale adesso gli sarà intitolata un’aula. Saranno presenti il sindaco Antonio Bonanno e il dirigente scolastico Luciano Maria Sambataro.

Alle ore 10.00, a Villa delle Favare sarà presentato il libro “Internato n. 102883/IIA. La cattedra di dolore di Gerardo Sangiorgio”, scritto per “Nero su Bianco Edizioni” da Salvatore Borzì con prefazione di Nicolò Mineo e uno scritto di Yves Bonnefoy. Un volume appassionato, dedicato a «Il siciliano che sopravvisse ai lager nazisti e dedicò la sua vita di insegnate per testimoniare l’orrore e trasmettere i valori di libertà e fratellanza”. Dopo un’introduzione della docente Giusi Rasà, oltre all’autore e a Vittorio Fiorenza, giornalista ed editore, interverranno il primo cittadino e l’assessore alla Pubblica Istruzione, Daniela Russo, e Vincenzo Petralia, che di Sangiorgio fu alunno. A moderare l’incontro, Salvuccio Furnari.

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Le iniziative sono state promosse dal Liceo di Scienze umane con il patrocinio dell’amministrazione comunale. L’istituto scolastico già la settimana scorsa ha promosso laboratori e organizzato due giornate di riflessione, anche coinvolgendo le terze medie di Biancavilla.

Le attività hanno inteso fare vivere la memoria delle atrocità dell’Olocausto e dell’internamento nei lager per poterla trasformare in atti capaci di crescere, di educare, di raccogliere i frutti di una continua semina contro ogni forma di violenza e intolleranza.

Convinti che la scuola sia una fabbrica di pensiero. «Per questo motivo –viene sottolineato– il Liceo e il Comune di Biancavilla hanno deciso di ricordare la Giornata della memoria attraverso un messaggio che vada oltre il didascalico e il consueto. Un’installazione, fortemente evocativa, è stata infatti posta sugli spazi esterni delle scuole per tutta la giornata del 25 gennaio e 27 gennaio: un’installazione temporanea dal titolo “Camminando nella valle oscura, Salmo n. 23”.

Contemporaneamente all’interno della scuola, un gruppo di studenti in veste bianca hanno letto Todes fuge, un testo di Paul Celan, considerato il più grande poeta sopravvissuto all’Olocausto e il brano “Un pezzo di pane calpestato” del poeta e scrittore biancavillese Gerardo Sangiorgio, scampato al lager.

«Perché la poesia e i poeti? Per smentire e ad affermare il pensiero di Adorno secondo il quale non sarebbe stato più possibile fare poesia dopo gli orrori dei lager. Perché la bellezza della poesia sia un auspicio affinché tutte le scuole possano diventare, oltre che luoghi di formazione e didattica, anche centri di produzione e diffusione culturale perché la barbarie della violenza e dell’odio si combatte solo con la bellezza e la cultura».

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Cultura

Smilzo, gracile, magro, insomma uno “smiçiaçiàtu”… di origine francese

Un aggettivo che trova “cittadinanza letteraria”, da Silvana Grasso a Maria Antonietta Musumarra

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Ne L’arti di Giufà (1916) di Nino Martoglio, c’è un personaggio dal nome parlante, quasi un soprannome descrittivo dell’aspetto fisico, il Conte Smiciaciato «grande metteur en scene cinematografico». In precedenza, infatti, ne I civitoti in pretura (1903), Martoglio aveva usato lo stesso termine come aggettivo: «Ah, allura, mentri c’è ’ssu bonifatturi… Benchì ca ’st’avvucatu mi pari smiciaciàtu», dice l’imputato Masillara. In Cappiddazzu paga tuttu (1917), la commedia scritta insieme a Pirandello, Don Jacu dice: «Chi? Chi faciti? E chi sugnu allura ddu smiciaciatu di Don Sucasimula? Va, dati cca, e pigghiativi ’u vostru!».

Qual è dunque il significato di smiciaciatu o meglio smiçiaçiàtu, secondo la trascrizione ortografica del Vocabolario Siciliano? A Biancavilla e in tutta la provincia di Catania, ma anche in altre province dell’Isola, significa “mingherlino, molto magro”; “smilzo, gracile”; ma localmente vale anche “rachitico, stentato, che è poco sviluppato”, e si dice pure di un “bambino vestito di abiti sbrindellati”. Molto interessante, come vedremo, è l’espressione di area orientale si fa-mmòriri smiçiaçiàtu! in riferimento a chi lesina su tutto, privandosi persino del necessario.

L’espressività del nostro aggettivo non è passata inosservata alle nostre scrittrici e ai nostri scrittori, che l’adoperano nelle loro opere, come Silvana Grasso:

Aveva speso una fortuna nei casini, ma solo cosí aveva onorato il sacramento del matrimonio che uno era e uno doveva … anzi piuttosto incarcagnato bassino, aveva un’aria smisciasciàta, di uno che soffre di stomaco, di colite o una cute lucida rossellina, ed era calvo tranne che sulla nuca trapaniata da peluzzi (Pazza è la luna).

Oppure Mario Di Bella, in un racconto tratto da Il salone del barbiere:

Il tempo ce l’avevano, sia lui che il mastro, e il tempo, da perfetto galantuomo, insieme alla paglia e qualche scoppolone di sveglia, avrebbe saputo fare maturare le nespole anche su quell’albero smisciasciato e ’nzitato malamenti (Il parrucchiere Franco).

O ancora Maria Antonietta Musumarra (La collina del giorno dopo):

Ognuno diceva la sua, tutti d’accordo però nel trovare Antonio un bocciolo di rosa e me un po’ troppo “smiciaciata” e bruttina.

Quale sarà l’origine del nostro aggettivo, è ora il caso di chiederci? Alla base di smiçiaçiàtu c’è il siciliano antico (XIV sec.) misasiátu (pàsciri li poviri et li misasiati) e a sua volta dal francese antico mesaise “stato di malessere, di sofferenza, di sconforto” da cui miçiàçiu e smiçiàçiu “inedia”; “miseria”, usato in frasi come mòriri di miçiàçiu “morire d’inedia”; in area ragusana irisinni di miçiàçiu “di sostanze, in genere alimentari, che si consumano gradatamente”, fari i cosi a-mmiçiàçiu “abborracciare”. Per sfuggire alla censura, un soldato palermitano, durante la I guerra mondiale, scrisse così alla famiglia: «la salute discretamente, salvo una certa dose di miciacio con conseguente stitichezza».

La voce francese è formata dal suff. sottrattivo mes– + aise “benessere”. Ci potremmo fermare qui, ma l’ant. francese aise, attraverso uno sviluppo semantico con riscontri nella stessa Francia e nei dialetti meridionali, continuatore del latino adiacens (ad + iacio), è giunto come prestito nel siciliano àciu ‘latrina, cesso’ e nell’it. agio. Lascio immaginare ai lettori e alle lettrici quale benessere o agio (aise) si sarà potuto trarre in una latrina.

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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