Cultura
Le confraternite di Biancavilla ieri e oggi fra tradizione e spiritualità

di Giuseppe Gugliuzzo
“Le confraternite: un patrimonio di tradizione e spiritualità”. Questo il tema della tavola rotonda che si è svolta nella chiesa Annunziata, promossa dalla parrocchia e dall’omonima confraternita, per «riscoprire il ruolo e la funzione delle antiche aggregazioni laicali nella Chiesa del terzo millennio».
Ad intervenire sono stati il dott. Antonio Mursia del dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania, la prof. Giuseppina Fazzio, presidente della Confederazione delle confraternite dell’Arcidiocesi di Catania, e don Pietro Longo, vicario episcopale per la Pastorale.
Padre Giovambattista Zappalà, parroco ed assistente spirituale della confraternita dell’Annunziata, ha introdotto l’incontro, moderato da Giuseppe Scaccianoce, componente della congregazione religiosa.
Mursia ha tracciato le vicende storiche, per certi versi inedite, di alcune confraternite biancavillesi, le più antiche, parlando dell’esistenza di quella di Sant’Orsola, nata agli inizi del ‘600 ed oggi estinta. Ma anche quella di San Rocco, oggi denominata del Rosario, dello stesso periodo; del Santissimo Sacramento di fine ‘500 e dell’Annunziata. Evidenziato il grande ruolo che un tempo avevano a Biancavilla.
Fazzio ha sottolineato l’importanza delle confraternite, aperte a tutti gli strati sociali, nel corso della storia, contribuendo anche a salvare la Chiesa durante le eresie. «Oggi – ha specificato Fazzio – devono modularsi. Essere comunità, essere fratelli e i fratelli non si scelgono. Ci possono essere litigi tra fratelli, ma a distinguerci come sodalizi ci deve essere il perdono, la testimonianza evangelica».
Padre Longo ha citato i Papi Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio su quanto hanno affermato sulle confraternite. «Possiamo anche far parte –ha sottolineato il sacerdote– della confraternita o di tutti i gruppi di questo mondo, ma se non ci incontriamo con Gesù Cristo, abbiamo fatto un buco nell’acqua».
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Cultura
A Biancavilla “scaliari” è frugare e “a scalia” la fanno le forze dell’ordine
Ma in altre parti della Sicilia la parola (di origine latina, in prestito dal greco) ha pure altri significati


Un proverbio che avremmo potuto leggere ne I Malavoglia, anche se nella forma del calco in italiano è Il gallo a portare e la gallina a razzolare. Come documenta, infatti, Gabriella Alfieri in uno studio dedicato ai proverbi ne I Malavoglia, Verga aveva prima aggiunto questo proverbio nel manoscritto e poi lo aveva espunto dall’opera andata in stampa. La forma siciliana del proverbio è quella registrata da Pitrè: lu gaddu a purtari e la gaddina a scaliari, il cui significato paremiologico vuole essere quello secondo cui “in una famiglia con piccoli guadagni e piccoli risparmi si riescono a fare cose di un certo valore”.
Il significato di “razzolare” che Verga attribuisce a scalïari è diverso da quello che si usa a Biancavilla, cioè “frugare”, per esempio scalïàricci i sacchetti a unu “frugare nelle tasche di qualcuno”, oppure scalïari a unu “perquisire qualcuno”; da qui la scàlia cioè la “perquisizione” operata dalle forze dell’ordine: mi poi scalïari i sacchetti, nan ci àiu mancu na lira, così in risposta a chi ci chiede de soldi.
In altre parti della Sicilia scalïari ha anche altri significati: a) “razzolare, delle galline”, b) “rovistare, rimuovere ogni cosa per cercare un oggetto”; c) “mettere tutto a soqquadro, scompigliare”; d) “rubare”; e) scalïàrisi i sacchetti vale scherzosamente “tirar fuori il denaro”, mentre f) scalïàrisi a testa significa “guastarsi la testa”, nell’Agrigentino. Nel Ragusano il modo di dire scalïari a mmerda ca feti, lett. “frugare lo sterco che puzza”, ha il significato figurato di “rimestare faccende poco pulite”. Dal participio derivano: scalïata e scalïatina “il razzolare”, “il frugare alla meglio”, “perquisizione sommaria”; scaliatu “riferito alla terra scavata e ammonticchiata dalla talpa”, nel Nisseno; in area catanese meridionale con peṭṛi scalïati si indica un “cumulo di pietre ammonticchiate alla rinfusa nei campi coltivati”.
“Scaliari” tra poesie e canzoni
Non molto adoperato nei romanzi di scrittori siciliani, scalïari è usato in poesie dialettali e in canzoni, come in questa dal titolo Tintatu dall’album Incantu, di un cantautore agrigentino che usa lo pseudonimo di Agghiastru:
Cunnucimi jusu chi l’occhi toi vasu
araciu tintatu di viriri jo.
Unn’è la to luci chi scuru cchiù ‘n sia
e scaliari a lu funnu un sia mai.
Parola d’origine latina, ma prestata dal greco
Molto interessanti, ai fini della comprensione dell’origine della parola, oltre a quello di “razzolare”, sono i significati di “zappare superficialmente” e di “rimuovere, ad esempio, la brace o il pane nel forno”. La nostra voce deriva da un latino parlato *SCALIDIARE, a sua volta prestito dal greco σκαλίζω (skalizō) “zappare, sarchiare”, voce presente nei dialetti greci di Calabria, coi significati di “zappettare”, “sarchiare”, “razzolare”, “attizzare il fuoco”, “frugare”.
Partendo, dunque, dal significato più antico, che è quello di “zappare”, si arriva, nell’ordine, a quelli di “sarchiare”, “zappare superficialmente”, “razzolare”, cioè raspare la terra con le zampe e il becco, e, infine, “frugare”, cioè cercare minuziosamente, con le mani o anche servendosi di un arnese, in ripostigli o in mezzo ad altri oggetti.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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