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Cultura

Esame di coscienza (civile) a margine dei festeggiamenti per San Placido

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Nella confusione che taluni notiziari creano tra la festa cittadina di San Placido ed il programma liturgico che – da pochi anni – è proposto sotto la sorta di hashtag “Ottobre Sacro”, il biancavillese (non troppo misticamente) va alla spicciola: «A cu portunu st’annu?». Ossia chi sono i musicisti di grido che si esibiranno in Piazza? Ma tra chi accoglie l’uscita e il passaggio del fercolo con lacrime e offerte, scappellandosi, segnandosi e bisbigliando giaculatorie e chi vuole farsi un pranzo luculliano, una volta rientrato dall’estate in campagna, l’animo è lo stesso.

Infatti la festa del Paese, anche per il periodo in cui cade, ha la forza di dividere l’anno: prima e dopo “San Prazzitu”. Nella ricorrenza, si sfoggia il vestito nuovo, si fanno gli acquisti per l’inverno, ragazzi e ragazze sono lasciati liberi di rientrare alle ore piccole e i più giovani ricevono da nonni e parenti “a fera”, ossia quell’elargizione di denaro per far propri i vari “desiderata” scovati tra le bancarelle, mentre gli amministratori – ambiziosi di rielezione – sanno che devono passare il banco di prova del programma ricco. È festa, dunque, che mette tutti d’accordo, corale e gaudente, luminosa. Per rivedere qualcosa di tanto gioioso sul sagrato bisognerà attendere “A Paci”, la domenica di Resurrezione.

Mezzogiorno del 5 ottobre a Biancavilla è, infatti, il solo momento in cui ci si sente parte di uno spirito collettivo, apoteosi di propria rappresentazione, quintessenza di orgoglio campanilistico. Non a caso – prima di entrare nell’antropologia – tra i più antichi documenti dell’archivio comunale, e siamo nel XVII secolo, compare la preoccupazione dei decurioni di impegnare somme per abbellire la cappella del Santo, nei giorni che precedevano la schiusa del sacello. I caratteri, già si evince, sono quelli della divinità classica, non a caso – secondo la vulgata nostrana – quella di Placido è una beatitudine marcata da tratti umanissimi, che lo portano a tirare in faccia una padellata fino a far nero l’omologo dei vicini adernesi o a piantare una pedata al confine della città, frenando i piani furtivi ancora dei limitrofi (a proposito: cosa ci vuole per scoprire in loco un’epigrafe che ricordi ai più giovani il toponimo, peraltro unico della Città documentato finanche dal racconto di Pitrè?).

Sono, di certo, passati i tempi quando amministratori del calibro di Alfio Bruno erano disposti a finanziare la festa, dissolvendo il proprio patrimonio, per restituire alla città eventi entrati nella tradizione. E il mutare di questa sensibilità si ravvisa in quelli che sono più di semplici tagli di programma. I nostri nonni vedevano la corsa dei cavalli, i nostri genitori i palloni aerostatici (perché non riprendere la cosa oggi coinvolgendo in sana competizione le scuole?!) e noi non vorremmo mai raccontare di essere appartenuti all’ultima generazione che ha assistito allo sparo di mezzanotte e alla fiera del bestiame.

In tempi di crisi, spiace ricordarlo ai politici, si riduce l’allestimento in tutto ciò che è sperimentazione recente, non si toccano la storia e le sue tradizioni, popolari e no. Se Benedetto Viaggio, due secoli fa, aveva ben chiaro che i fuochi pirotecnici – a margine della giornata del 6 ottobre – erano il saluto ai forestieri accorsi in città, Antonio Bruno, più tardi, rimarcava sul suo diario “dopo lo sparo”, per dare corso a una meditazione dal tono tutto leopardiano.

Verrebbe da chiedersi: chi ha avuto l’idea di togliere proprio quel saluto conclusivo, non ha pensato che anche soltanto tre “masculuna” – magari sottratti allo sparo dell’uscita mattutina – avrebbero continuato a dare il senso dell’eredità folklorica acquisita? (San Placido non si sarebbe certo offeso!)

Quest’anno, in barba al Barbanera e a tutti i prestigiosi almanacchi, è venuta a mancare anche la “mitica” fiera del bestiame, che faceva accorrere da ogni dove. Uno degli aspetti della festa che riporta ciascuno all’adolescenza, quando scopriva, per la prima volta, furetti, porcellini d’india e conigli nani. In tempi che vedono Firenze (alle Cascine) creare ad attrazione turistica un evento analogo, quando nelle scuole si introduce la pet therapy, a Biancavilla anziché pubblicizzare un mercato ormai plurisecolare – unico nel suo genere – con misure d’intesa che prevengano ogni forma di maltrattamento agli animali e salvaguardino la legalità, si pensa bene – per un vile episodio occorso lo scorso anno – di eliminare un pezzo di storia. Che abilità politica c’è nel cancellare? Pensare che bella vetrina sarebbe stato, per tutto il territorio etneo, mostrare le specie uniche e rare della zona, i cirnechi dell’Etna, per esempio. Teniamoci le cineserie.

A onor del vero, stupendo il trionfo di luci di questa edizione, nonostante ci si sarebbe aspettati di ammirare anche una composizione luminaria dedicata al titolare dei festeggiamenti. Semplice dimenticanza?

La festa è, per stratificazione sociale, dimensione. Collettiva. Simbolo di integrità e integrazione civile, apertura al mondo. San Placido, infatti, viene per tutti: ultimo atto prima di schiudere il sipario alla vita di sempre.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

Un inno alla Sicilia: i versi di Tomasello “cantati” dall’Intelligenza Artificiale

“Figghiu di la terra mia”: il poeta contadino di Biancavilla, a 90 anni, sperimenta e regala nuove emozioni

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L’esperimento è semplice, il risultato sbalorditivo. Si prendano i versi di Giuseppe Tomasello, che esaltano la Sicilia e l’orgoglio di essere siciliani. Parole in dialetto, come buona parte della produzione del poeta contadino, biancavillese di 90 anni.

Sono quelle del componimento “Figghiu di la me terra”, vincitore, nel 1990, del primo premio nazionale di poesia per tutte le regioni d’Italia. Adesso si diano in prestito all’Intelligenza Artificiale, con una delle mille app a disposizione, ordinando di trasformarle in una canzone dal ritmo contemporaneo e dalle sonorità pop che esaltino il testo di Tomasello: “Sugnu sicilianu e mi ni vantu…”.

Pochi minuti di elaborazione ed ecco che l’IA, a parte qualche difetto di pronuncia, ha dato ulteriore valore e nuova vita a quello che può essere considerato un appassionato inno della Sicilia e dei siciliani. Nessuna voce umana, nessuno strumento musicale, nessuna sala di incisione: tutto creato dall’Intelligenza Artificiale.

Giuseppe Tomasello, don Puddu, alla sua età (il prossimo dicembre saranno 91) continua così a sperimentare e, grazie alla più avanzata tecnologia, a regalarci nuove emozioni.

Pochi giorni fa ha ricevuto il Premio Scanderbeg, voluto dalla presidenza del Consiglio Comunale di Biancavilla, per i meriti culturali derivanti da una vita dedicata alla poesia. Numerosi i componimenti, ma anche le commedie teatrali a sua firma. Di notevole interesse quelle in dialetto siciliano, in particolare incentrate sulla Sicilia e sul mondo contadino.

Figghiu di la me terra

Sugnu sicilianu e mi nni vantu,
‘e mali lingui non ci dugnu cuntu:
li sò biddizzi rari iù li cantu
e li sò belli stori li raccuntu:
Urlandu furiusu palatinu,
la storia di lu pupu sicilianu,
di lu carrettu sò, oru zicchinu,
fattu di ‘ntiliggenti artiggianu.
Dicu di Mungibeddu lu sbrannuri:
chiù lu talìu e chiù beddu mi pari,
di ddu pinnacchiu russu lu culuri
la vista ti rricna e fa ncantari.
St’ìsula, la criau lu Signuri,
vasata di lu suli e di lu mari:
cci desi di la vita li culuri,
tutta la luci ca la fa brillari.
Tutti l’aceddi vèninu a cantari!
Li farfalleddi a truvari li sciuri:
tròvinu l’armunia tutti pari,
lu veru postu ppi fari l’amuri.
Vèninu tutti ccà, li furasteri,
cci pàssinu, e ccà vonu ristari;
si scordinu li uài e li pinzeri
e tutti cci ulissiru tumari.
Mi sentu figghiu di ‘sta terra e cantu
e li mè noti li spagghiu a lu ventu,
ppi d’idda, amuri, mi nni sentu tantu:
vivu ppi chista ggioia e m’accuntentu.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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