Cultura
“Santu, riccu e furtunatu”, ecco il libro fotografico su padre Brancato


Un impegno sacerdotale e un’azione sociale che, a Biancavilla, attraversano e oltrepassano il Novecento. È la storia di padre Placido Brancato, scomparso lo scorso novembre da decano della Diocesi di Catania, lasciando un ricordo vivo che accompagna diverse generazioni.
Una storia raccontata adesso nel nuovo libro pubblicato da Nero su Bianco Edizioni e curato da Giuseppe Gugliuzzo e Giuseppe Ciadamidaro. Si intitola “Santu, riccu e furtunatu”: un chiaro richiamo al saluto che l’anziano prete era solito ripetere. Una pubblicazione che racchiude una biografia essenziale, raccoglie una serie di testimonianze e, soprattutto, custodisce un preziosissimo album fotografico.
Immagini d’epoca inedite, che si possono ammirare grazie alla disponibilità della parrocchia Annunziata (retta da padre Brancato per quasi mezzo secolo) e che raccontano la vita del sacerdote e parte della storia “sociale” cittadina. Momenti di vita personale o di incontri con i confratelli, momenti “corali” di vita comunitaria, dall’Azione Cattolica all’oratorio “Don Bosco”: tantissime foto sottratte dai cassetti impolverati e salvate in questo “scrigno editoriale” ora fruibile da tutti. Non una banale “operazione nostalgia”, ma il recupero e la condivisione di porzioni di memoria storica locale, come indicato nello scopo statutario della casa editrice biancavillese, già sperimentato (con grande apprezzamento dei lettori) nelle precedenti pubblicazioni.
Il libro di Gugliuzzo e Ciadamidaro verrà presentato nella chiesa dell’Annunziata, sabato 13 luglio, alle ore 20. Un evento culturale che vuole essere un omaggio a padre Brancato, a meno di un anno dalla sua scomparsa.
La presentazione vedrà la presenza dell’arcivescovo di Catania, mons. Salvatore Gristina. All’incontro, che sarà moderato da Salvuccio Furnari, oltre ai due autori e all’editore Vittorio Fiorenza, interverranno il parroco, don Antonino Tomasello, ed il vicario foraneo, don Giovambattista Zappalà, che nel 2000 subentrò proprio a padre Brancato nella guida dell’Annunziata e che ha firmato la prefazione al libro.
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Cultura
Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via
Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee




Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.
A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.
Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc. Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.
La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:
… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura?
In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):
Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.
E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):
E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»
Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):
Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.
Poi con Uno sbirro femmina (2007):
«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».
E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):
La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!
Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):
Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.
E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):
«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.
Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140. Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):
Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
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