Cultura
Gerardo Sangiorgio, in Brianza omaggio al biancavillese sopravvissuto ai lager nazisti
A Limbiate iniziativa promossa dalla prof. Rosetta D’Agati: «Fu il mio insegnante, gli sono riconoscente»

di Vittorio Fiorenza
Il ricordo dell’intellettuale e dell’educatore, il racconto dell’esperienza vissuta nei lager nazisti. Gerardo Sangiorgio, biancavillese sopravvissuto ai lager, dove era stato deportato dopo l’8 Settembre per il suo rifiuto ad aderire alla Repubblica di Salò, viene celebrato anche fuori Sicilia.
Mercoledì 22 gennaio la scuola media “Giovanni Verga” di Limbiate (in provincia di Monza e Brianza) dedicherà un incontro, con la partecipazione dell’amministrazione comunale e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, all’esempio lasciato da Sangiorgio, scomparso nel marzo del 1993, dopo avere dedicato la sua vita di insegnante a promuovere i valori cristiani e civili contenuti nella nostra Costituzione.
L’iniziativa di Limbiate, non a caso, si deve proprio ad una sua ex alunna, che adesso lì fa l’insegnante. La prof. Rosetta D’Agati, docente di arte, da sempre impegnata sul fronte della memoria e della legalità, ha invitato Placido, figlio di Gerardo, per raccontare l’esperienza vissuta dal padre.
Oltre agli interventi di D’Agati e Sangiorgio, un gruppo di alunni leggerà alcune poesie di Gerardo. Parleranno pure il sindaco Antonino Romeo ed il presidente della sezione locale dell’Anpi, Giuliano Ripamonti.
«Grazie professore Gerardo Sangiorgio, le sarò per sempre riconoscente, non finirò mai di ringraziarla per il segno che mi ha lasciato. Spero di lasciare un briciolo ai miei amati alunni, trasmettere l’educazione e l’amore per lo studio ma soprattutto l’amore per la bellezza di questo universo», è il messaggio che vuole trasmettere la prof. D’Agati, i cui alunni sono impegnati in un progetto più ampio sulla memoria, anche attraverso visite ad Auschwitz.
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Cultura
Smilzo, gracile, magro, insomma uno “smiçiaçiàtu”… di origine francese
Un aggettivo che trova “cittadinanza letteraria”, da Silvana Grasso a Maria Antonietta Musumarra


Ne L’arti di Giufà (1916) di Nino Martoglio, c’è un personaggio dal nome parlante, quasi un soprannome descrittivo dell’aspetto fisico, il Conte Smiciaciato «grande metteur en scene cinematografico». In precedenza, infatti, ne I civitoti in pretura (1903), Martoglio aveva usato lo stesso termine come aggettivo: «Ah, allura, mentri c’è ’ssu bonifatturi… Benchì ca ’st’avvucatu mi pari smiciaciàtu», dice l’imputato Masillara. In Cappiddazzu paga tuttu (1917), la commedia scritta insieme a Pirandello, Don Jacu dice: «Chi? Chi faciti? E chi sugnu allura ddu smiciaciatu di Don Sucasimula? Va, dati cca, e pigghiativi ’u vostru!».
Qual è dunque il significato di smiciaciatu o meglio smiçiaçiàtu, secondo la trascrizione ortografica del Vocabolario Siciliano? A Biancavilla e in tutta la provincia di Catania, ma anche in altre province dell’Isola, significa “mingherlino, molto magro”; “smilzo, gracile”; ma localmente vale anche “rachitico, stentato, che è poco sviluppato”, e si dice pure di un “bambino vestito di abiti sbrindellati”. Molto interessante, come vedremo, è l’espressione di area orientale si fa-mmòriri smiçiaçiàtu! in riferimento a chi lesina su tutto, privandosi persino del necessario.
L’espressività del nostro aggettivo non è passata inosservata alle nostre scrittrici e ai nostri scrittori, che l’adoperano nelle loro opere, come Silvana Grasso:
Aveva speso una fortuna nei casini, ma solo cosí aveva onorato il sacramento del matrimonio che uno era e uno doveva … anzi piuttosto incarcagnato bassino, aveva un’aria smisciasciàta, di uno che soffre di stomaco, di colite o una cute lucida rossellina, ed era calvo tranne che sulla nuca trapaniata da peluzzi (Pazza è la luna).
Oppure Mario Di Bella, in un racconto tratto da Il salone del barbiere:
Il tempo ce l’avevano, sia lui che il mastro, e il tempo, da perfetto galantuomo, insieme alla paglia e qualche scoppolone di sveglia, avrebbe saputo fare maturare le nespole anche su quell’albero smisciasciato e ’nzitato malamenti (Il parrucchiere Franco).
O ancora Maria Antonietta Musumarra (La collina del giorno dopo):
Ognuno diceva la sua, tutti d’accordo però nel trovare Antonio un bocciolo di rosa e me un po’ troppo “smiciaciata” e bruttina.
Quale sarà l’origine del nostro aggettivo, è ora il caso di chiederci? Alla base di smiçiaçiàtu c’è il siciliano antico (XIV sec.) misasiátu (pàsciri li poviri et li misasiati) e a sua volta dal francese antico mesaise “stato di malessere, di sofferenza, di sconforto” da cui miçiàçiu e smiçiàçiu “inedia”; “miseria”, usato in frasi come mòriri di miçiàçiu “morire d’inedia”; in area ragusana irisinni di miçiàçiu “di sostanze, in genere alimentari, che si consumano gradatamente”, fari i cosi a-mmiçiàçiu “abborracciare”. Per sfuggire alla censura, un soldato palermitano, durante la I guerra mondiale, scrisse così alla famiglia: «la salute discretamente, salvo una certa dose di miciacio con conseguente stitichezza».
La voce francese è formata dal suff. sottrattivo mes– + aise “benessere”. Ci potremmo fermare qui, ma l’ant. francese aise, attraverso uno sviluppo semantico con riscontri nella stessa Francia e nei dialetti meridionali, continuatore del latino adiacens (ad + iacio), è giunto come prestito nel siciliano àciu ‘latrina, cesso’ e nell’it. agio. Lascio immaginare ai lettori e alle lettrici quale benessere o agio (aise) si sarà potuto trarre in una latrina.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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