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Cultura

Storia della famiglia di Nino e Anna nella Biancavilla degli Anni ‘60

Romanzo di Alfio Bisicchia incentrato su una modesta famiglia contadina ed ambientato a Biancavilla

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È appena uscito, bellissimo, ma in sordina, senza fasto né presentazioni ufficiali, un breve romanzo di Alfio Bisicchia – di appena 14 capitoli – ambientato a Biancavilla col titolo di “Storia di una famiglia di provincia”. Nell’ampia, inattesa prefazione che introduce il testo, scrive l’Autore di suo pugno a beneficio dei suoi sperati lettori, di non trattarsi di un romanzo autobiografico, ma di aver concepito la sua narrazione come una bella storia moralmente pulita, e per questo adatta a tutti, basata sulle vicende esistenziali di una «famiglia regolare, normale, la più comune che noi possiamo incontrare nell’esperienza della vita quotidiana». Sono – aggiungo io – le vicissitudini alterne di una modesta ma non inope famiglia contadina che, sin dagli anni ‘60, noi intimamente vediamo già ben costruita negli affetti e votata seriamente al lavoro e alla custodia di ogni virtù religiosa e sociale, poiché nata, come abbiamo da subito intuito, da un matrimonio d’amore. Una famiglia, chiarisce poi lo Scrittore, storicamente collocata in un periodo in cui si era da poco arrivati a vivere non solo «una fase di modernizzazione dei sistemi produttivi», ma anche un insieme di aviti «codici tradizionali di comportamento» col superamento di tutti quei paradigmi di pensiero e idealità fin lì ancorati ad una società ad economia rurale, ora ansiosa di modernità e sollecitata dal consumismo nascente. Bisicchia, in altri termini, ci introduce all’interno di una piccola comunità familiare – due genitori (Nino e Anna) e tre figli (Vincenzo, Paolo e Pina) – che si caratterizza, nella sua semplicità, come vera, reale nel suo essere possibile, perché non conosce, o forse non giustifica ancora, «le irregolarità di certe famiglie… descritte in tanti romanzi del Novecento e del primo Duemila».

La trama che coinvolge a vario titolo tutti i personaggi citati, e che io ovviamente non svelo, si dipana con ordine fino alla conclusione del ciclo vitale dei due genitori. Ed è proprio dalle semplici virtù di questi ultimi, perennemente pronti al sacrificio, alla reciproca collaborazione, alla fatica, alla sobrietà, alla comprensione delle esigenze altrui, alla riscoperta dei valori di Fede nei momenti di tristezza o di difficoltà, che l’Autore fa snodare in maniera efficace la successione degli eventi esistenziali facendo leva sulla maturità del loro essere due coniugi responsabili, convinti che ogni matrimonio (e dunque la famiglia) dura e si salva proprio per la solidità di siffatta coerenza. Facendosi esempio costante del loro essere buoni ed onesti erga omnes – dunque non solo all’interno della famiglia, ma anche nei rapporti col mondo esterno – Nino e Anna, pur alla soglia della loro dipartita terrena, assurgono a modello, per i figli e i nipoti che da questi via via nasceranno durante la maggiore età, del vivere sano che li ha contraddistinti e diventano inconsciamente propositori per le generazioni a venire di una lealtà di sentimenti e di una saggezza che non conoscono mai imbrogli o sotterfugi. Proprio per questo, scopriamo a fine lettura, i due anziani sposi, Nino e Anna, assurgono, anche dopo la morte, a simbolo di eroi vincenti in ogni tempo, anche quando la modernità dei mezzi di sussistenza e le nuove modalità del vivere sociale, inalienabili conquiste dell’evoluzione del XX secolo, sembrano sconvolgere l’iter familiare costituito, comprimendo in un oblio coatto i sacri valori ereditati dal passato.

Non riuscendo a frantumare coi diversivi della distrazione il piacere di pervenire all’epilogo di questa bella storia, il lettore finisce, ormai incuriosito, per lasciarsi contagiare da tutti quei riscontri, fra l’altro a lui non del tutto ignoti, che gli fanno puntualmente tornare alla memoria chissà quanti di quegli ammonimenti che si sentì rivolgere in gioventù dai genitori, dai nonni,… dai maestri! Ed è così che la mitica Biancavilla di un tempo, quella risorta insieme alla rimanente Italia dalle macerie del Risorgimento e dell’ultimo Dopoguerra, impone a ciascuno di rivedere tra le nostalgie della mente il proprio essere stato (specie chi da ragazzo, per causa della povertà dilagante, aveva dovuto calzare in campagna “i scarpitti” o, in mancanza di stoffa, sopportare a scuola, di fronte agli altri più fortunati scolari, la vergogna delle toppe sul sedere per fare durare di più i propri pantaloni) per poi apprezzare quanta strada da allora la popolazione tutta ha fatto in termini di ricostruzione e di modernità del vivere civile.

Potrei continuare ad libitum a parlare in questi termini. Il romanzo del mio dotto Amico dilaga tra le pagine del suo volume – e fa debordare la mente di ciascuno – nel fornire alla mia e vostra curiosità intellettuale una congerie di esempi, detti, proverbi, sentenze, motti, scongiuri e quant’altro ancora, una miscellanea di saperi empirici e ammonimenti di gente comune che rievoca come musica nostalgica le convenzioni su cui i nostri padri fondavano i loro modi esistenziali… e nostri in quanto figli da educare, ancor utili a chi, senza aver ereditato niente di buono dalla guerra, ingenuamente diceva, come me ragazzo, d’aver tutto.

Questo breve romanzo di Bisicchia, per la poliedricità dei suoi punti di osservazione sulla nostra realtà cittadina, mi ha dato in diversi luoghi l’impressione di possedere una spazialità ben più vasta e qualitativamente apprezzabile di quella che un tempo – mi si conceda, per una volta, il riferimento classico – potesse afferrare con gli occhi il misterioso Giano bifronte, nume tanto temuto e onorato, per causa di tali prerogative, nell’antichità romana. Ci sono sempre in ogni pagina del suo libro apprezzabili elementi di saggezza popolare che non si possono eludere con una semplice alzata di spalle e che si sommano con pari onore ai saperi moderni, accumulati come sono al fondo della nostra curiosità, solidi come mattoni di una imponente fortezza non ancora completata. Ogni episodio esistenziale narrato, confortato da poesie, proverbi in vernacolo, fotografie, incensi poetici e aromi dei nostri luoghi, correda la sua realtà verosimile con una serie di apporti logici e linguistici degni dei migliori dialettologi nostrani.

Per questo, e in nome di questo, ora io plaudo all’uscita di quest’opera. Bravo e previdente, caro Alfio! Tu sai quanto pericolo di cadere nell’oblio corrano questi tesori del nostro quotidiano parlare, brani ancor vivi di civiltà che avrebbero fatto gola al compianto prof. Sebastiano Lo Nigro, titolare di cattedra, all’Università di Catania, di Storia delle Tradizioni Popolari. Io mi ricordo ancora con quanta simpatia sguinzagliava, negli anni ’70, i suoi studenti alla ricerca d’ogni genere di tesori verbali tra le profonde pieghe ancestrali della Provincia! Perciò, quale loro migliore custodia se non un buon libro…compreso il tuo?

Avrei voluto che questo bel volume, per la gran mole di notizie e di saperi nostrani antichi che lo correda, non fosse pubblicato in così esiguo numero di esemplari come elitario dono gratuito ad amici ed estimatori. Io apprezzo la tua solitaria iniziativa e, grato, ti ringrazio pubblicamente, prof. Bisicchia, d’avermi indegnamente incluso in tale novero ma, sinceramente, avrei auspicato, come faccio adesso, che la sua tiratura fosse stata ben più estesa, a beneficio di tutti coloro che, a prescindere dalla professione o dell’attività lavorativa svolta, sono interessati alla conoscenza e alla conservazione di un così bel patrimonio di tradizioni avite. Anzi, dico di più! Poiché il libro è stato scritto di proposito in un linguaggio semplice e piano per essere accessibile a tutti, quanto bene ne potrebbero trarre i nostri studenti concittadini e la gente comune delle nuove generazioni che in massima parte, cinquantenni compresi, nulla sanno di quanto Tu, caro Prof., hai saputo evocare! Per questo ora io invito chi di dovere, fra gli addetti al Comune, ad accostarsi con discrezione e rispetto a questa timida, non sbandierata pubblicazione e leggerla. Su cosa dover fare dopo, raccolga coraggiosamente il mio sasso e rifletta: tutti noi cittadini elettori perseveriamo a sperare che l’intelligenza e lo spirito civico di chi ama Biancavilla alla fine prevalga!

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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2 Commenti

2 Commenti

  1. angelo

    30 Gennaio 2018 at 17:00

    Grande Prof!!!!
    Altro best seller per veri appassionati della lettura.

    Un grosso saluto da Angelo!

  2. SABINO

    30 Gennaio 2018 at 10:04

    segnalo con grande ammirazione l’ arguta e sapiente visione del mondo un pò retro vissuto da tutti. Quegli anni 60 che sono stati il motore della crescita sia in Italia che a Biancavilla.
    Merito del prof. Alfio Bisicchia, il quale ha dato tanto sia nel libro che nella vita di tutti i giorni insegnando a tanti sia Italiano/Latino che lezioni di vita.
    Buona lettura a tutti voi !!!

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Cultura

Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”

Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada

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Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.

Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.

In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.

Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:

Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!

Toponimo in zona Vigne

Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.

Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.

Alle origini del termine

Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica:  a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.

Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.

Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!

Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.

Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:

Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchiodispensa consigli, cura malattie.

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