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Il tributo di Nicolò Mineo a Gerardo Sangiorgio, sopravvissuto ai lager

Le parole dell’intellettuale catanese su quel giovane biancavillese internato per il suo “no” a Salò

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È la Giornata della memoria, nella quale ogni anno si ricordano le vittime dell’Olocausto. A vivere la drammatica esperienza dei lager nazisti è stato anche un cittadino di Biancavilla: Gerardo Sangiorgio. Sopravvissuto ai luoghi dell’orrore, nei quali fu spedito per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Una volta liberato, fece ritorno a casa. Da quel momento dedicò la vita alla testimonianza di quell’esperienza vissuta e alla sensibilizzazione dei suoi studenti verso i valori di fratellanza e libertà.

Su di lui e sulle diverse iniziative volte a tramandarne la sua memoria su Biancavilla Oggi si è ampiamente scritto. L’editore Nero su Bianco ha dato alle stampe due volumi di Salvatore Borzì che lo riguardano: “Internato n. 102883/IIA. La cattedra di dolore di Gerardo Sangiorgio” e “Una vita ancora più bella. La guerra, l’8 Settembre, i lager. Lettere e memorie 1941-1945″.

Oggi lo vogliamo ricordare attraverso il ritratto che di lui ne fa Nicolò Mineo, già preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, autore della prefazione al primo volume.

Gerardo Sangiorgio, «martire (…) di Biancavilla», è per Mineo «una nobile figura che (…) ci viene incontro con la sua memoria e con i suoi scritti e ci costringe (…) a pensarlo nella sua individuale, unica e sacra, e violata, esistenza». Le sue memorie di prigionia «trasmettono l’angoscia delle vittime e l’orrore di quella realtà». E fanno anche luce su particolari meno noti, quali il trattamento più severo che i tedeschi riservarono ai militari italiani non aderenti a Salò, rispetto a chi collaborò con gli angloamericani.

Mineo sottolinea poi che anche durante la prigionia Sangiorgio «ha conservato la capacità di amare e anche di prestare aiuto a qualche compagno di pena». E dopo la liberazione, ha avuto persino «la forza (…) di condannare i martellanti inviti all’odio verso i tedeschi». Tornato alla vita normale, Sangiorgio si è dedicato anima e corpo allo studio della letteratura, all’insegnamento «con (…) dedizione e (…) totale apertura ai giovani» e ai suoi affetti famigliari, guidato come sempre dalla sua incrollabile fede.

Mineo ricorda infine quantità e qualità della produzione letteraria di Sangiorgio. E rievoca la sua amicizia con Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, non senza menzionare i suoi interventi di critico letterario sul poeta futurista Antonio Bruno.

Insomma, come può evincersi da questi brevi ma significativi cenni che il Professor Mineo fa della vita di Gerardo Sangiorgio, il ricordo che ogni anno la nostra comunità fa di lui richiama alla nostra mente non solo la tragedia di uno sterminio di massa folle e tragico. Ma anche la “ferma dolcezza” con la quale una delle vittime di quella tragedia seppe testimoniare l’orrore vissuto sulla propria pelle per ricordare alle generazioni successive la necessità di coltivare e proteggere con ogni mezzo i valori di libertà, democrazia e giustizia sociale. Valori che costituiscono l’unico antidoto all’odio e alla violenza generatori di morte e distruzione.

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Cultura

Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”

Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici

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Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.

Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).

In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:

Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?

Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.

Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.

Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri?Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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