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Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via

Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee

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Lavoratori nelle campagne di Biancavilla © Foto Nero su Bianco Edizioni

Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.

A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.

Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc.  Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.

La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:

… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura? 

In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):

Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.

E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):

E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»

Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):

Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.

Poi con Uno sbirro femmina (2007):

«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare   proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».

E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):

La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!

Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):

Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.

E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):

«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.

Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140.  Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):

Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”

Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada

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Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.

Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.

In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.

Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:

Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!

Toponimo in zona Vigne

Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.

Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.

Alle origini del termine

Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica:  a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.

Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.

Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!

Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.

Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:

Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchiodispensa consigli, cura malattie.

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