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Si può essere o “allunati” o “nzalinuti”: quando la colpa… è della Luna

Due parole usate a volte come forme di insulto nei confronti di chi è confuso o duro di comprendonio

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© Foto Massimo Pesce

Nelle credenze popolari il “male di luna” corrisponde alla licantropia, una rara forma di grave psicopatologia che conduce al delirio di trasformazione somatica ovvero alla folle credenza dei pazienti di potersi trasformare in animale. Nella novella pirandelliana Il male di luna, il protagonista Batà racconta come abbia preso questo male e dice

che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva «incantato». L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta.

Gli influssi negativi della luna sulle persone (parliamo sempre di credenze popolari, ovviamente), tuttavia, non sono sempre così devastanti come la licantropia che si è manifestata nel personaggio pirandelliano o in tanti altri personaggi, letterari e non, che un tempo popolavano il mondo di bambini e adulti di incubi. Altri influssi della luna, si diceva, sono meno pericolosi ma probabilmente molto più diffusi di quanto si possa credere. Si tratta di un ‘male della luna’, dunque, di minore entità, tanto da non lasciare tracce consistenti nelle credenze popolari o nella letteratura.

Ci sono due parole, due aggettivi, a volte usati a Biancavilla, ma non solo, come forme di insulto, se vogliamo, che vengono pronunciati all’indirizzo di chi è confuso, di chi non ci sta con la testa, di chi è stordito, intontito, duro di comprendonio o momentaneamente fuori di sé.

Il primo, presente a Biancavilla, è llunatu (altrove allunatu) che non significa “allunato”, nel senso di sbarcato sulla luna, ma in quello di “stordito”, “confuso”, “che non ci sta con la testa” ecc. in quanto colpito dall’influenza negativa della luna. Anche in italiano, pur con significato leggermente diverso, abbiamo lunatico. Linguisticamente llunatu deriva dal part. di llunari (allunari) “rimanere fisicamente stordito, ad es. per un frastuono o confusione, o anche stando, a lungo, sotto la sferza del sole”. Una fonte lessicografica dell’Ottocento ci conserva l’interessante significato di “subire l’influsso malefico della luna”, mentre da altre fonti lessicografiche dei sec. XVII-XVIII apprendiamo che allunari significava “cominciare a diventare stantio, o addirittura a putrefarsi, di carne e soprattutto di pesce”. Potenza della luna!

Ancora più interessante è l’altro aggettivo, nzalinutu (anche nzalanutu e nzalunutu), anche questo usato a Biancavilla. È derivato dal participio di nzaliniri (nzalaniri, nzaluniri) “rimanere confuso e stordito”, “perdere la testa, confondersi per il frastuono di molte voci”. Altrove, in Sicilia, può significare “rabbrividire, trasalire”, “imbizzarrirsi, di animali in foia”, “intestardirsi, incaponirsi”, “stizzirsi”, “ubriacarsi” ecc.

Etimologia e letteratura

Sul piano etimologico, llunatu è una parola trasparente, in quanto il parlante comune può rendersi conto che si tratta di un derivato di luna (come llupatu da lupu, nnurvatu da orvu ecc.). Diverso è il caso di nzaliniri e nzalinutu, parola opaca in cui il parlante non sa riconoscere delle parole a lui note al suo interno. Si tratta, infatti, di un prestito dal greco σεληνιάζω [selēniázō] “subire l’influsso della malvagia influenza della luna”. E poi adattato nelle forme latinizzate siciliane e calabresi (nzaliniri, nzalaniri, cal. nseleniri ecc.), derivato a sua volta da σελήνη [selēnē] “luna” (Rohlfs). Ricordiamo, inoltre, che il verbo greco, nella forma media σεληνιάζομαι [selēniázomai], significa “essere epilettico, soffrire di epilessia”.

Notevole, infine, il recupero sul piano letterario del verbo nzaliniri, variamente adattato e declinato da alcuni/e scrittori e scrittrici. Eccone un breve assaggio.

Per cominciare partiamo con Andrea Camilleri (La gita a Tindari):

L’ultima stazione della via crucis era costituita dall’interno 19 del quarto piano. Avvocato Leone Guarnotta. Da sotto la porta filtrava un sciàuro di ragù che Montalbano si sentì insallanire.

Continuiamo con Silvana Grasso (L’albero di Giuda e Disìo):

…se lo sarebbe tenuto quel zzzzuuuuuuuzzzz che lo ‘nzalanìva, lo stordiva già alle sette di mattina, quando metteva i piedi a terra e scalzo per prima cosa andava al cesso.

E più e più cresceva in disìo e orgasmo, più e più insalaniva incantesimata e stupita di cotanta rinascenza. Ogni parte del suo corpo si svacantava e a un tempo s’allinchìva per minima pausa, un maremoto tra onde chete solo per tirannia…

E concludiamo col grande scrittore Calabrese, Giuseppe Occhiato (Oga Magoga):

I canti trapassavano le tavole della pinnata, irrompevano fuori, sui campi, dilagando nella notte, lambivano i dorsi rasati delle colline, scivolavano nei valloncelli; lasciarono sgomenti gli spiriti erranti, insalanirono i grilli nelle frasche e nei cespugli, fermarono il tempo e il cammino della luna.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”

Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada

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Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.

Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.

In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.

Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:

Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!

Toponimo in zona Vigne

Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.

Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.

Alle origini del termine

Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica:  a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.

Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.

Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!

Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.

Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:

Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchiodispensa consigli, cura malattie.

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