Cultura
Matrimoni antichi a Biancavilla: atti, formule ed espressioni del 1599
Promessi sposi: sfogliamo e leggiamo il “Quinterno delli matrimoni della Matrici Ecclesia”





Scriveva lo storico Carlo Albero Garufi (Ricerche sugli usi nuziali nel Medio Evo in Sicilia, 1897) che «S’ebbe quindi nel Medio Evo legame perfetto nel matrimonio, allorquando si compievano i tre atti: iurari, nguaggiari (ch’era il matrimonio propriamente detto) e spusari […]». Il primo atto (iurari) era il giuramento di contrarre le nozze, il secondo (nguaggiari) era lo scambio d’anelli, quindi matrimonio effettivo secondo il rito greco, il terzo, infine, il ringraziamento dopo il matrimonio, «per avere un legame perfetto», aggiunge Garufi.
Se pensiamo a Biancavilla, di questi tre momenti, scanditi da tre cerimonie distinte, ritroviamo le tracce nel Quinterno delli matrimoni della Matrici Ecclesia della terra di Biancavilla, iniziato il primo gennaio del 1599. Parliamo solo di tracce, a ben vedere, in quanto, nel frattempo, era intervenuto il Concilio di Trento che aveva dettato nuove regole, rispetto a quelle del diritto canonico medievale, e tentato di mettere ordine tra riti matrimoniali di tipo greco, latino, ebraico, germanico e normanno.
Analizziamo, a mo’ d’esempio, il primo atto che risale al 17 gennaio 1599 (nella nostra trascrizione, per comodità del lettore, abbiamo sciolto i compendi, ripristinato, ove necessario, le maiuscole, e inserito la punteggiatura):
Die 17 januarij 12a Indictionis 1599
Perché s’ha da qontraire un matrimonio infra mastro Mariano Xiretta, figlio dellj quondam Bartolomeo et Mariana Xiretta della terra di Tripi, ed Agatucza di Missina, figlia dellj quondam mastro Petro et Venecia di Missina.
In questo atto, i due fidanzati, Mariano Xiretta (= Sciretta) e Agatucza (= Agatuzza) di Missina, stabiliscono concordemente di unirsi in matrimonio: qontraire un matrimonio. Nella lessicografia settecentesca troviamo il verbo cuntrairi “stabilire concordevolmente”, chiosa il Pasqualino, e l’espressione cuntrairi li sponsali “contrar matrimonio”.
Sette mesi dopo, il 9 agosto, c’è la celebrazione vera e propria del matrimonio:
Die IX augustj 12a Indictionis 1599
Io, Don Joseppi di Rocco, cappellano della matricj ecclesia nella terra di Biancavilla, ho spusato allj Supra ditt,i nella ditta matricj ecclesia, presenti Micelj Sportaro et Geronimo Tempera.
Un cambiamento di rito, o almeno di lessico, è intervenuto alla fine dello stesso mese, quando il parroco, Joseppi di Rocco, viene sostituito da un altro cappellano. La prima parte del rito rimane uguale:
die 28 augusti 12a Indictionis 1599
Perché s’ha da qontraire un matrimonio infra Cola Caruso, figlio di Domi›nico et Domi›nica Caruso della qittà di Misterj Bianco con Venecia Ambropassa, figlia di Pasqualj et Antonina Ambropasso della terra di Brontj.
Nella seconda, del 13 settembre, troviamo un altro verbo:
Die 13 Septembris XIIa Jndictionis 1599
Jo, Don Francisco Scrophana, Cappellano di la Matri ecclesia di questa terra di Biancavalla, ho giurato alli sopradetti nella ditta matri ecclesia, presenti Dominico di Anilj et Blasj Larosa.
Come è evidente, il verbo giurare non ha qui il significato del «giuramento di contrarre le nozze», ma quello di “unire in matrimonio”, in riferimento al cappellano che officia il rito. La lessicografia registra il verbo iuràrisi nel significato antiquato di “sposarsi”; ad Adrano aveva quello, preconciliare, di “celebrare il matrimonio civile pochi giorni prima di quello religioso”. Lo stesso concetto a Biancavilla si esprimeva, invece, con diri u sissignuri, lett. “dire il sì, signore”, riferito all’ufficiale dell’anagrafe del comune.
Ancora un cambiamento nel formulario rituale si registra a pochi mesi di distanza: mentre fino a quel periodo si registravano due momenti, quello della reciproca promessa di matrimonio (contraire un matrimonio) e quello successivo del matrimonio vero e proprio (spusare, giurare), celebrato a distanza di almeno due settimane, adesso troviamo un’unica registrazione per due riti probabilmente distinti:
Io, Don Francisco Scrophana, cappellano di questa terra di Biancavilla, ho guagiato et spusato ad Jacopo Chufalo, figlio di Iuseppi et Caterina di Montalbano, con Diana, figlia di Juanni Hirmana, di la terra di Catania, fatti prima li tri soliti bandi, conforme al Sacro Concilio Tridentino, et questa fu in presentia di Masj Furnari, Vincenso Ricupro et altri testimoni di detta terra – f.s.
Con questa formula il prete pronunciava due dei tre atti costitutivi del matrimonio, cioè lo scambio degli anelli e il ringraziamento dopo il matrimonio: u nguaggiatu e u spusatu erano due atti giuridici passati al diritto consuetudinario.
La formula si presenta anche con varianti, sia dello stesso cappellano e poi vicario, Scrophana, del tipo ho guagiato spusato a/ad, ho guagiato a/ad …, sia di altri cappellani (e.g. don Petro Raccuia, don Francisco Siriano), come inguagiai ad …, ho inguagiato a/ad …, ho inguagiato et spusato a/ad. Si potrebbe aggiungere che il vicario usa sempre il verbo «ho guagiato», mentre negli altri cappellani sono presenti le varianti «inguagiai» e «ho inguagiato».
Per quanto riguarda «li tri soliti bandi», si deve osservare che, in applicazione dei dettati dei Concilio di Trento, era fondamentale la pubblicità dell’evento nelle parrocchie di provenienza dei promessi sposi per le tre domeniche che precedevano la cerimonia, per far sì che il parroco potesse essere informato per tempo di eventuali problemi ostativi e prevenire situazioni irregolari, come la bigamia o il matrimonio fra consanguinei.
Sul piano formale sia guagiare che inguagiare rappresentano due diversi modi di italianizzare il sic. nguaggiàri, documentato fin dal XIV sec. (1348 nella forma inguayari) col significato di “mettere l’anello al dito” e poi, estensivamente, “prendere moglie”, “sposarsi”. In riferimento al prete che officia il rito, come abbiamo detto, nguaggiàri significa “celebrare il matrimonio”. Ancora più antichi sono i derivati (1327-1337) inguaiatura “promessa” e inguaiata “promessa sposa”. A Paternò è registrato il riflessivo reciproco nguaiàrisi “sposarsi” che, sotto l’influsso dell’omonimo nguaiàrisi “inguaiarsi, mettersi nei guai”, significa anche “rovinarsi con un cattivo matrimonio”.
Dal verbo deriva il nome nguàggiu che anticamente significava “matrimonio, come rito e cerimonia con cui si festeggia”; c’erano dunque localmente âneḍḍu di nguàggiu “l’anello nuziale”, la vesta di lu nguàggiu “l’abito indossato dalla sposa nel giorno delle nozze”; e si diceva iri ô nguàggiu “andare ad una festa nuziale”.
Per quanto riguarda l’etimo della parola, il nostro verbo, assieme alla var. ngaggiàri, è un prestito dal francese antico engagier “dare (in pegno) la propria parola” e “promettere in matrimonio”. Alla base del verbo francese c’è la parola gage “pegno”, a sua volta dal francone (una lingua germanica) *wadi “id.” che era un termine del diritto dei Franchi, da cui il latino medievale inguadiare “dare garanzia”.
La forma del francese antico si trova anche come base dell’italiano ingaggiare e del sic. ngaggiàri “assumere alle proprie dipendenze”, ma questa è un’altra storia.
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Cultura
Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”
Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada





Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.
Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.
In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.
Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:
Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!
Toponimo in zona Vigne
Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.
Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.
Alle origini del termine
Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica: a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.
Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.
Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!
Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.
Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:
Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchio, dispensa consigli, cura malattie.
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