Cultura
L’indagine storica di Antonio Mursia alla scoperta della Chiesa Annunziata

«Per dei majorem honorem et gloriam. Le vicende della chiesa di Santa Maria Annunziata di Biancavilla (1604-1952)». È il titolo del libro, pubblicato dalle Edizioni Efesto, dello studioso biancavillese Antonio Mursia. Protagonista di molti tra gli eventi che hanno segnato la storia di Biancavilla, la chiesa di S. Maria Annunziata rappresenta l’esempio di uno degli edifici sacri più interessanti della provincia di Catania sia dal punto di vista architettonico sia dal punto di vista prettamente storico. Essa si distingue altresì per le sue manifestazioni artistiche, grazie alle maestranze che vi lavorarono, primi fra tutti l’archistar Giuseppe Longobardo e il pittore Giuseppe Tamo, bresciano di formazione, ma verosimilmente oriundo dalla Svizzera. Questo volume vuole essere una proposta e un invito alla riscoperta della storia della chiesa di S. Maria Annunziata, che è innanzitutto storia della città di Biancavilla, ma anche spaccato della storia delle chiese di Sicilia. Dopo quattro secoli dalla sua fondazione, l’autore intende restituire quindi l’aspetto e l’importanza dell’illustre passato di questo edificio sacro, attraverso un’attenta analisi delle fonti documentarie e con l’ausilio di un ricco apparato iconografico. Per gentile concessione dell’editore, Biancavilla Oggi pubblica qui la prefazione, curata da Adolfo Longhitano, ordinario emerito di Diritto canonico presso la Facoltà Teologica di Sicilia dell’Istituto Teologico S. Paolo di Catania.
La concezione della storia che abbiamo acquisito nei banchi di scuola – mi riferisco in particolare a quelli della mia generazione – riguardava prevalentemente i grandi eventi e i personaggi di vertice della società. In quest’ottica, una ricerca approfondita sulla chiesa dell’Annunziata di Biancavilla sarebbe stata ritenuta marginale se non del tutto inutile. Solo nella prima metà del secolo scorso l’oggetto della ricerca storica fu esteso alla società nel suo insieme dalla École des Annales. Questa tendenza fu ulteriormente sviluppata in tempi a noi più vicini da alcuni studiosi italiani che diedero vita alla corrente storiografica chiamata Microstoria, che si concentra su aree geografiche molto circoscritte per offrire una ricostruzione minuziosa e analitica della storia di piccole comunità locali: avvenimenti, personaggi e atteggiamenti mentali che inevitabilmente sfuggono alla storia di vasta scala, fatta di grandi processi storici, analizzati per mezzo di categorie generali e periodizzazioni convenzionali. L’estensione dell’oggetto dell’indagine storica, più che determinare una frammentazione dei risultati, contribuisce a comporre il quadro generale della società nella quale maturano i grandi eventi e si muovono i grandi personaggi. Gli uomini che hanno fatto la storia e gli avvenimenti che spesso hanno contrassegnato un’epoca sono sempre un «prodotto» della società.

Mi è sempre piaciuto immaginare la storia come un grande affresco, nel quale determinati avvenimenti o personaggi sono raffigurati armonicamente all’interno di un paesaggio curato nei dettagli. Quello che per il pittore è il frutto della fantasia, per lo storico è il risultato di un pazientemente lavoro di ricerca, al fine di ricostruire fatti e situazioni del passato e sottrarli in qualche modo all’oblio per il continuo fluire del tempo. Il grande affresco della storia non può essere portato a termine da un solo autore: sono tanti coloro che danno il proprio apporto alla comprensione e alla ricostruzione del passato: c’è chi si occupa dei personaggi e degli avvenimenti di rilievo, c’è chi cura il paesaggio e i dettagli. Quel che conta è il risultato finale, per il quale tutti hanno dato il proprio contributo.
Anche se nelle diverse correnti storiografiche si nota una varietà di approccio alla realtà, non si mette in discussione la necessità di mantenere il rigore metodologico nella ricerca e nella interpretazione delle fonti. Le espressioni Storia economica e sociale, Storia sociale e religiosa, Microstoria non possono costituire un pretesto per la superficialità e le ricostruzioni frettolose o non suffragate da un’analisi seria dei documenti. Anche nella tradizionale distinzione tra Storia universale e Storia locale, i cultori di quest’ultima erano coscienti del rischio incombente di far prevalere il naturale desiderio di dar lustro al proprio luogo di origine, attribuendo dignità di storia alle tradizioni popolari senza averle opportunamente decifrate e verificate con il supporto delle fonti.

«Senza fatti non accade di ragionare». Questa espressione, del noto storico siciliano Rosario Gregorio, può essere considerata come il punto di partenza della ricerca storica, quale che sia il particolare angolo di visuale dal quale chi scrive intende analizzare la realtà. I fatti sui quali ragionare sono contenuti nei documenti e i documenti — nel significato più ampio che tale termine assume nella storiografia — vanno pazientemente ricercati, analizzati, compresi e utilizzati per ricostruire il passato.
Antonio Mursia, nonostante la sua giovane età, dimostra di conoscere pienamente il metodo storico, di apprezzare il valore dei documenti e di avere la necessaria passione per la ricerca. Leggendo i suoi saggi su Biancavilla (e pure sul francescanesimo isolano, v. § 10), è facile comprendere il tipo di approccio che egli ha stabilito con il suo luogo natale: conoscere e valutare le tradizioni popolari; ricercare la documentazione necessaria per ricostruire il passato in modo oggettivo, senza indulgere alle emotività e senza preoccuparsi eccessivamente di compiacere i propri lettori.
Prendendo in mano questo volume, che traccia la storia della chiesa dell’Annunziata, qualcuno può ritenere eccessive le citazioni; può anche credere che i continui riferimenti rendano poco fluido il discorso; come pure può non comprendere il perché delle tante note che trova a piè di pagina. Costui dovrebbe ricordarsi che non ha in mano un romanzo o un racconto, ma una ricerca storica, nella quale chi scrive deve documentare le sue affermazioni per rendere credibile la ricostruzione del passato e darle la veste e la dignità propria della storia. Anche i non addetti ai lavori sanno bene che per storia s’intende: «esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del passato, quali risultano da un’indagine critica volta ad accertare sia la verità, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere un’unità di sviluppo (così definita la storia si contrappone alla cronaca, che è invece esposizione, per lo più non critica, di fatti nella loro semplice successione cronologica)».
A conclusione di questa mia breve presentazione voglio solamente augurare al nostro giovane e valido Autore di continuare per la strada intrapresa e di non avere eccessiva fretta nell’assecondare il naturale desiderio di comporre da solo l’affresco della storia di Biancavilla. Si occupi per ora dei particolari e ricerchi la collaborazione di altri che seguono con rigore lo stesso metodo: la sintesi potrà essere fatta a suo tempo.
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Cultura
San Placido tra pranzi solenni e il gran finale con una porzione di “scumuni”
Un tuffo nelle tradizioni culinarie e dolciarie legate ai festeggiamenti per il patrono di Biancavilla

Arriva san Placido. Lo hanno annunciato i mortaretti già il 5 settembre. E lo dicono adesso anche il profumo di mosto e il fumo delle prime caldarroste, gli archi delle luminarie, il primo fresco e tutta una atmosfera che difficilmente si riesce a descrivere con le parole. Tutto questo, in poche settimane, ci accompagna alla ricorrenza più attesa dai biancavillesi, quella che segna il limite tra la bella stagione e l’inverno (san Prazzitu è stidda d’acqua, recitavano gli antichi).
E mentre in piazza si attende il manifesto col programma (per secoli e fino a qualche anno fa su un foglio piccolo o grande quanto mezza casa si leggeva in rosso “Festeggiamenti in onore di san Placido”, oggi invece si preferisce condividere i link sui social media con titoli che spesso scordano il Festeggiato), nelle famiglie si comincia a parlare di cosa cucinare e di quanti saranno gli invitati per il pranzo solenne, il momento in cui tutta la famiglia sarà riunita.
San Placido e i vari momenti della festa a lui dedicata hanno da sempre rappresentato l’unione e la fraternità nel parentato, nei quartieri, in tutto il paese. Tutti i biancavillesi il 5 e il 6 ottobre si ritrovano uniti attorno all’immagine di questo monaco benedicente e sorridente, con lo sguardo rivolto a chi, a fil di voce, gli porge una preghiera.
Peculiarità ricche di storia
Ogni festa ha aspetti peculiari legati alla convivialità e al cibo che rimandano anche alla prosperità, alla salute e al benessere di una comunità. Per san Placido si teneva la fiera franca del bestiame, di utensili, di mercanzie e alimenti di ogni genere. Nelle tavole arrivavano salsicce e carne, lasagne, maccarruna e tagghiarini da condire con il ragù. Una parte importantissima era rappresentata dai dolci rigorosamente fatti in casa come il torrone e i past’i mennula (la mandorla era stata cutulata, sgaddata e stinnuta ‘o suli davanti alle case per poi essere scacciata e usata come alimento, mentre il mallo e la buccia sarebbero stati ottimo combustibile per l’inverno).
Ma a far da padrone in questi giorni solenni era sicuramente il richiestissimo e prelibato scumuni. Si tratta di un gelato al cioccolato con un ripieno schiumoso di zabaione che arricchiva una volta le sontuose tavole dei Benedettini.
Si deve agli arabi, più di mille anni fa, l’idea di mischiare la neve delle montagne siciliane con zucchero e aromi vari per creare un alimento chiamato da loro sherbet, utilizzato come rinfrescante e anche per scopi farmaceutici (addizionato a del succo di limone). Agevolmente preparato nella nostra zona poiché l’Etna, con la sua neve presente in parecchi mesi dell’anno, riusciva a fornire in abbondanza la materia prima. Cacciati gli arabi dall’isola, i segreti del dolce gelato furono raccolti dai monaci, stanziati nel territorio etneo proprio dopo l’espulsione dei musulmani, che ne affinarono e migliorarono la preparazione moltiplicandone i gusti con l’aggiunta di cioccolato, marmellata e confetture, cannella e vaniglia…
A Biancavilla, è presumibile che arrivi nel corso del Sette/Ottocento, forse portato proprio da qualche monaco custode dell’antica ricetta, e si attesta come dolce prediletto per concludere i pranzi di gioiose ricorrenze come matrimoni e battesimi.
Una preparazione complessa
Diversamente dagli altri dolci, che potevano essere preparati tra le mura domestiche, u scumuni doveva essere realizzato in “laboratori specializzati”, in possesso di gelatiere (un sistema di contenitori cilindrici di legno o metallo da girare manualmente, dentro ai quali si metteva la neve e il sale per far ghiacciare il composto).
Il procedimento seguiva due momenti ben distinti: la preparazione della camicia, ovvero il rivestimento di cioccolato, e poi dell’anima, fatta di tuorlo d’uovo sbattuto con zucchero, aromi e qualche goccia di liquore. Il tutto veniva sistemato dentro a delle forme di acciaio a campana e da lì a qualche ora – dopo essersi “raffermato” per bene – poteva essere gustato.
La realizzazione e soprattutto la conservazione, quando non c’erano energia elettrica e frigoriferi nelle abitazioni, facevano dello scumuni una vera ricercatezza.
Aspetti letterari, culturali e di folclore
Di una gelatiera nuova, come macchinario di ultima generazione, si parla nella novella di Federico De Roberto, intitolata appunto “San Placido” e ambientata presumibilmente proprio a Biancavilla nella seconda metà dell’Ottocento.
Il Caffè Italia – sito tra la piazza Collegiata e la via Vittorio Emanuele, i cui titolari (Pippinu Lavenia detto Spalletta e i suoi familiari) avevano ereditato la ricetta – negli anni Venti del Novecento arrivava a venderne quattrocento forme solo nei giorni della festa.
Fino a pochi anni fa la Confraternita del Santissimo Sacramento, preposta allo svolgimento delle celebrazioni patronali, offriva a tutti i suoi confrati una forma di scumuni da portare in famiglia.
In tempi recenti, un monaco in visita nella nostra città ha affermato che «lo schiumone, potrebbe rappresentare bene l’essere umano: per capirne in pieno l’essenza non ci si può fermare solo alle apparenze esterne (il cioccolato) ma bisogna scoprirne per intero il sapore addentrandosi a ciò che esso racchiude (lo zabaione)…». Ma questa già sarebbe un’altra storia…
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