Cultura
Un termine prestatoci dalla Spagna: “(a)ccanzari”, tra dialetto e letteratura
La parola significa “ottenere, conseguire” e a Biancavilla si presenta con aferesi della A iniziale


Una parola che si sente usare sempre di meno a Biancavilla è il verbo ccanzari coi significati di “ottenere, conseguire”, “guadagnare, buscare”, “buscarsi qualcosa, ad esempio un malanno”, “raccogliere, mettere insieme”. La frase ccanzari vizzi ha il valore di “contrarre vizi”, come nell’esempio: stu carusu ccanzau tutt’i vizzi di sa paṭṛi; ccanzari affettu vale ‘nutrire affetto’: na ota ca cci ava ccanzatu affettu mi lassau. Altrove significa anche “mettere da parte, conservare” e “recuperare qualcosa”. La forma biancavillese ccanzari è una variante con aferesi (= caduta) della a– iniziale di quella più diffusa in Sicilia, accanzari.
Mettendo da parte gli usi poetici e dialettali del passato (ad es. Giovanni Meli), non senza, però, citare almeno un esempio da Nino Martoglio, tratto da A nfruenza,
la nostra voce, anche nella var. grafica accansare, è stata ripresa e rivitalizzata nell’italiano regionale dei nostri scrittori e delle nostre scrittrici contemporanei/e:
Ecco alcuni esempi, cominciando da Severino Santiapichi (Romanzo di un paese):
Con l’entrata in servizio della linea, “ci accansarono”, vale a dire ci guadagnarono, gli ovari…
In più di un’occasione il verbo viene usato da Silvana Grasso:
La notte, Carolina la passava in strada ad accanzare i sacchi pieni di cartaccia, e, di prima mattina, la si vedeva ai Quattro canti come le sonnambule (L’albero di Giuda).
Li accanzava alla brace, ora sul ceppo d’olivo, ora sul ramo di carrubo, ma quelle betulle attrunzate di neve non s’animavano di foco, s’invidiavano alla fiamma, per quanto lui ci perdesse tempo (Pazza è la luna).
Dopo Di qua dal faro, Vincenzo Consolo lo usa in Nottetempo, casa per casa:
vecchi femmine bambini uomini invalidi per guerra o malattia, ciechi per vaiolo e butterati, venuti dai vicoli del Borgo della Kalsa dell’Albergheria, giù da Sant’Erasmo, da Bandita, che qui sul porto, nei paraggi degli scari, col traffico di merci, passeggeri, speravan d’accansare qualche cosa.
E infine, ma tralasciando altri/e autori e autrici e altre opere che il lettore curioso può riscontrare, Danilo Dolci (Inchiesta a Palermo):
Allora ho risposto io: – Ci vogliono le bestemmie allora, per accansare ogni cosa.
Sul piano etimologico la voce, che, oltre a essere siciliana, è napoletana (alcanzà) e sarda (alkansare, alkansai, arkansai, akkansare ecc.), è un prestito dallo spagnolo alcanzar che ha il significato di ‘raggiungere’, ed è, a sua volta, una forma alterata di alcalçar. Questo ci consente di riconoscere nella voce spagnola la base latina calceare ‘indossare i calzari’ e in ultima analisi calx, -cis ‘calcagno, piede, calcio’.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”
Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici


Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.
Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).
In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:
Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?
Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.
Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.
Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri? ‒ Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”
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“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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