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“Ncarammàrisi”: termine di cacciatori, pescatori e… innamorati pazzi

“Invaghirsi perdutamente…”, ma non è l’unico significato: alle origini vi è il greco “cháragma”

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Immaginiamo di fare un’incisione su un muro, magari con l’intento di comunicare qualcosa attraverso un disegno, un semplice graffio o delle parole. Ripetendo l’azione, l’incisione a poco a poco si allarga e si fa più profonda, fino a diventare una fessura. La fessura, a sua volta, diventa una crepa, una voragine, un burrone … è quello crediamo sia successo ai significati della parola di cui stiamo per parlare.

Per esprimere il concetto di “infervorarsi sempre di più’ ma anche di ‘invaghirsi, innamorarsi perdutamente di qualcuno/-a”, a Biancavilla si usava, non so se si usa ancora oggi, il verbo ncarammàrisi, descritto così in Tremila parole Nostrane di Ventura, Bisicchia e Distefano: «dicesi di uno che si carica nel fare qualcosa in modo progressivamente più infervorato, intestardirsi».

Prima di pronunciarci sull’origine di questo verbo, vediamo altri significati in uso in altre parti della Sicilia. Fra questi ricordiamo “impegolarsi o mettersi nei pasticci”, “rovinarsi con un cattivo matrimonio” e, molto interessante, come vedremo, quello di “nascondersi in un posto in cui è difficile essere ritrovato”. Nei suoi usi intransitivi ncarammari significa “impigliarsi o incastrarsi nel fondo marino, ad es. della rete da pesca” … “imbucarsi o nascondersi in un’anfrattuosità della roccia lavica”, detto del coniglio, oppure, “rimanere bloccato nella tana o in un’anfrattuosità della roccia lavica”, detto del furetto, ad es. nella frase: u firettu ncarammau ntô forti. Gli ultimi significati sono documentati nei dialetti etnei nordorientali, ma è possibile che fossero comuni anche presso i cacciatori biancavillesi

Viaggio alle origini: “Caramma”

Parlando adesso dell’origine della parola, diciamo subito che ncarammari è un verbo denominale. Deriva cioè da un nome, nel nostro caso da caramma, probabilmente sparito da tempo dall’uso a Biancavilla. Ma che in tutta la Sicilia significa “fenditura tra le rocce o tra gli scogli in fondo al mare”. La variante maschile, carammu, a Ragalna, indica un ’anfratto’, a Paternò una ‘viuzza stretta e perduta’.

Alla sua base vi è il greco χάραγμα (cháragma) “incisione”, “segno impresso”, “marchio”; “incisione’ è servito da modello per ‘(grossa) fessura”, “fenditura” e poi “burrone”, nei dialetti della Calabria centro-settentrionale, nei dialetti lucani e nell’otrantino, dove troviamo karámbula “infossatura nella via”. Ma il tipo lessicale raggiunge anche la Campania e Napoli. Qui significa “fenditura tra gli scogli”, come le proverbio: ’O rangio sulo pe ffamme jèsce dâ caramma lett. “il granchio solo per fame esce dalla sua tana” (caramma = fenditura tra gli scogli) “Come sempre, la fame, il bisogno costringono ad agire”.

Un altro significato di caramma, ci è, infine, conservato da un malizioso epigramma (il V, tratto da Pri la celebri villa di lu Principi di Palagunia) di Giovanni Meli:

Figghi ’un n’ài fattu! oh gran miseria summa!

O lu marteddu o la lignami è stramma,

O lu difettu veni di la gumma.

O puru è ’nfrattinata la caramma,

O la pruvuli tua nun è di bumma,

O lu stivali nun vesti la gamma;

Lu sai chi ti dich’eu: cui tumma tumma

Si vòi essiri tata, ed idda mamma.

Nel glossario posto alla fine del volume delle Opere del 1857, s.v. caramma si legge: «vagina muliebre».

“Scarammari” per “districare”

Se ncarammari, infine, significa, “rimanere bloccato, incastrato e sim.”, comprendiamo intuitivamente il significato dello stesso verbo con cambio di prefisso: scarammari che significa “districare”, “disincagliare” e, nella forma pronominale, scarammàrisi, “districarsi”, “disincagliarsi”, “liberarsi da un intoppo” ecc. Di questo verbo troviamo un uso letterario recente nel romanzo di Marilina Giaquinta, Non rompere niente: «se lo ricorda quel fil bellissimo sempre del mio regista preferito quando lei se lo porta a fare un pic nic con la sua spider e si scaramma e s’avvalanga come una pazza lungo quella strada curve curve e lui che era il passeggero, rigido che sembrava che si era agghiottuto un manico di scopa, frena col piede a vuoto?».

Ci sarebbe ancora dell’atro da aggiungere. Ma concludiamo con questo frammento di scongiuro esorcistico contro il malocchio, usato in un racconto dello scrittore barcellonese Bartolo Cattafi (1922-1979), in cui sono usati i due verbi: «ti stoccu lu coddu ti tagghiu ’u marruggiu ti sgraccu ’nda ucca e ti levu ’u stuppagghiu /’ncaramma e scaramma t’attaccu a ’stu scogghiu ti scarricu a mari ti lanzu e ti tagghiu».

PER SAPERNE DI PIU’

“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”

Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici

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Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.

Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).

In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:

Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?

Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.

Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.

Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri?Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”

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“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia

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