Cultura
“A rringu”, un termine che ci porta dai campi di grano di Biancavilla alla boxe
“Mètiri a ringu a ringu”: da un esempio di espressione di uso locale al… “ring” di pugilato


Per esprimere il concetto di “indistintamente, senza fare distinzioni, tutto insieme, senza tralasciare nulla” e sim. a Biancavilla si ricorre alla locuzione avverbiale a rringu. In altre località, la locuzione ha un significato un po’ diverso, in quanto significa “in fila, l’uno dopo l’altro”, anche nella forma raddoppiata, a rringu a rringu. E così espressioni come cògghjiri a rringu opp. cògghjiri a rringu a rringu valgono “raccogliere, ad esempio i frutti dagli alberi, l’uno dopo l’altro, senza tralasciarne nessuno”.
In area catanese si usa ancora un particolare tipo di contratto di compravendita, vìnniri âranci a rringu. Secondo tale accordo, il compratore delle arance (u cummircianti) deve raccogliere e pagare allo stesso prezzo anche la merce che dovrebbe essere scartata (u scàrtitu). In granicoltura, sempre a Biancavilla, si dice siminari a rringu “seminare a spaglio” e mètiri a rringu a rringu “mietere tutto un campo di grano tagliando anche le spighe non ancora mature”.
La locuzione vanta usi letterari illustri, sia in dialetto, sia nella forma dell’italiano regionale a ringo. Luigi Pirandello la usa in Liola:
Zâ Cruci – Oh, picciotti, accuminciati di sutta, a ringu a ringu, acchianannu! E damu un occhiu a sti picciliddi!
Vincenzo Consolo ne La ferita dell’aprile:
ditta scavone – esportazione agrumi, si compra il fiore a ringo sopra l’albero e poi come riesce, è un mestiere cieco, può andare a scatafascio, può andare molto bene.
Se è ancora dell’uso vivo la locuzione avverbiale, meno conosciuto o non più conosciuto è il nome rringu. Le fonti lessicografiche registrano i significati di a) “riga, elemento lineare segnato e rilevabile in una superficie”; b) “riga di scrittura”, come nell’esempio mancu fari dui rringa di liṭṭṛa? “nemmeno scrivere due righe?”; c) “fila, serie di cose disposte l’una dietro l’altra”; d) “unità di misura usata per le maglie delle reti da pesca, corrispondente a un centimetro circa”; infine la locuzione nominale e) rringu d’àrbuli/d’àrvuli “filare di alberi”.
Le origini: in Sicilia già dal XIV sec.
Quanto all’origine di rringu, documentato in Sicilia sin dal XIV sec., e delle sue varianti fono-morfologiche (rrignu, rrincu, rrangu, rringa), presente anche nel calabrese e nel salentino, gli studiosi concordano sul fatto che si tratti di un antico prestito galloromanzo, anche se non è facile decidere se la base sia l’antico francese renc o il provenzale reng ‘ligne de guerriers, de soldats’, a sua volta dal germanico (h)ring ‘cerchio, anello’ (Valenti).
Il Gioeni chiarisce infine che «l’idea della forma circolare divenne accessoria e restò solo quella della linea», da cui il significato fondamentale di ‘fila, serie di cose disposte l’una dopo l’altra’.
Come leggiamo nel Vocabolario Treccani, il tedesco Ring indicava un “Immenso campo trincerato a forma circolare, costruito in Pannonia dagli Àvari nel sec. VIII: composto di nove cerchie di mura concentriche, conteneva villaggi e campi. Fu preso e distrutto da Carlo Magno nel 795 e da quel momento ebbe inizio la decadenza degli Avari”. La base etimologica è infine la stessa dell’inglese ring, il “quadrato delimitato da corde all’interno del quale si svolgono gli incontri di pugilato”.
Come già accennato, dunque, nelle lingue germaniche (tedesco e inglese) si è conservata l’idea di cerchio e di spazio delimitato. Nelle lingue galloromanze (francese e provenzale), l’attenzione si è spostata sulla linea che delimita lo spazio. Nel siciliano si conserva l’idea della linea, per esempio, quando si semina(va) a rringu “a spaglio”, si seguiva una linea, rappresentata dal solco principale, e a partire da essa si spargeva il frumento.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”
Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici


Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.
Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).
In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:
Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?
Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.
Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.
Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri? ‒ Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”
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“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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