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Dusmet ai tempi del colera: venne a Biancavilla e redarguì il prevosto

Il “vescovo della carità” in visita ai malati, mentre padre Rubino era fuggito via dal paese

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Il cardinale Dusmet a 32 anni dall’elevazione a Beato. Era il 25 settembre del 1988 quando avvenne la proclamazione da parte di Papa Giovanni Paolo II. Oggi la sua festa liturgica. Giuseppe Benedetto Dusmet, vescovo di Catania fino al 1894 è certamente il più celebrato tra quanti hanno guidato la Diocesi etnea.

Alla sua figura è legato anche un aneddoto che riguarda Biancavilla ed il quartiere Sajola, ai tempi del colera.

Alla fine dell’Ottocento una serie di calamità colpì Biancavilla e i paesi vicini. L’eruzione dell’Etna del 1879 e lo sciame sismico del 1883 impaurirono non poco la popolazione ai piedi del Vulcano. L’epidemia di vaiolo nero nel 1878. E poi quella di colera nel 1867 e, ancora più furiosa, nel 1887. Quindi la difterite, nell’inverno del 1890. Tutte calamità che fecero moltissime vittime.

Chi aveva la possibilità, si spostava lontano dai centri colpiti per evitare il pericolo di contagio, stabilendosi nelle campagne. Nei paesi si apprestavano dei lazzaretti, si tenevano le luci accese fino all’alba per facilitare gli spostamenti d’emergenza, si effettuava una più accurata pulizia delle strade, si proibiva di tenere gli animali liberi nelle vie…

Ma le autorità pubbliche, molto spesso, non avevano adeguate conoscenze e capacità di organizzare i soccorsi. Frequentemente si faceva ricorso alla medicina popolare, alle credenze tramandate da generazioni e… alla superstizione, che voleva risolvere il problema con pratiche e rituali arcani.

Quindi al disastro iniziale se ne aggiungevano altri nel giro di poco.

Dusmet, il vescovo della carità

In questi anni di prove terribili, a Catania sorse una figura dalle doti spirituali e umane non comuni, il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, che non a caso fu soprannominato il “vescovo della carità”.

Discendente da una nobile famiglia belga trapiantata a Palermo, era entrato nell’ordine benedettino (lo stesso del nostro San Placido), divenendo abate della Abbazia di San Nicolò de Arenis (dalla quale dipendeva quella di Santa Maria di Licodia) e poi, dal 1867, arcivescovo di Catania.

Il suo episcopato che riuscì ad unire una notevole capacità organizzativa a una profonda fede e a un ardente amore per il prossimo viene ricordato per l’opera di risanamento spirituale, morale e culturale del clero catanese, e per il suo slancio straordinario verso le necessità dei più bisognosi (più volte vendette la sua croce pettorale per ricavarne un gruzzoletto da dare a qualche povero che bussava alla porta dell’arcivescovado, come pure regalò le sue stesse lenzuola…). Soleva spesso dire «zelo delle anime ci vuole e si fa tutto!».

In occasione del colera del 1887, Dusmet spronò il suo clero a essere vicino ai fedeli e a non tralasciare i bisogni spirituali e materiali di chi era ammalato. Per questo redarguì aspramente il prevosto di Biancavilla, don Placido Rubino, che era scappato dal paese per alloggiare in una sua casa di campagna, proprio quando invece si aveva necessità di aiuto.

Dusmet a Biancavilla, in zona Sajola

L’arcivescovo di Catania, in questa occasione, venne a Biancavilla assieme al direttore medico provinciale, dott. Vincenzo Cervello, per assistere gli ammalati e portare conforto alle famiglie.

Si racconta anche un episodio indicativo della società del tempo e della fermezza del prelato.

Recatosi, il Dusmet, nel quartiere Sajola, entrò in una casa malconcia e povera, dove giaceva un coleroso, a cui diede incoraggiamento e anche del denaro indispensabile per le cure. Al vedere questo gesto, si fece avanti un tale di nome Giuseppe Messina che ostentò il fatto di aver curato fino ad allora l’ammalato con una medicina preparata da lui stesso.

Ma l’arcivescovo, insospettito, invece di lodare quel gesto, chiese immediatamente quale fosse la professione di quel tale e con quale conoscenze preparava delle medicine. Messina rispose essere un semplice fabbro.

«Con quale diritto osate dare medicine non adatte? Ve lo proibisco!», inveì l’arcivescovo.

L’individuo, preso dalla paura e temendo di essere arrestato, scappò via per le campagne circostanti, ma mentre correva cadde e si ruppe una gamba.

Alla fine dell’epidemia, Biancavilla su una popolazione di 13.373 abitanti, contò 239 casi di colera e ben 109 morti.

Nel 1889, con un decreto di Re Umberto, furono consegnate 5 medaglie di bronzo e 5 attestati di benemerenza ad altrettanti coraggiosi volontari che si erano distinti in paese nel prestare i soccorsi. Tra questi, insieme a medici e impiegati comunali, svetta il nome di una donna, Angela Fiorino, una contadina.

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Cultura

Intellettuale e uomo di cultura: ricordo nostalgico del preside Vincenzo Pistorio

Una sua lezione apriva un mondo affascinante, fu lui a riunirci dopo quanto accaduto ad Aldo Moro

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«Al Preside Prof. Vincenzo Pistorio per avere diretto con dedizione e passione in questa sede storico il Liceo “G. Verga” per 21 anni dal 1963 al 1984». Con queste parole, sovrascritte in una targa, si è voluto ricordare e omaggiare un biancavillese che ha dedicato la propria vita alla scuola. Una cerimonia semplice, ad Adrano, cui hanno preso parte il figlio Alberto con l’assessore del Comune di Adrano, Salvo Italia, e alcuni ex alunni: Massimo Cultraro, Eugenio Calì, Loredana Lorena, Sandra Galizia. Pubblichiamo qui di seguito un ricordo personale del nosro collaboratore, Alfio Lanaia, anche lui parte di quella generazione di studenti formatasi nel liceo guidato dal prof. Pistorio.

Con la targa dedicata quest’oggi al Preside Vincenzo Pistorio si sana un debito di riconoscenza verso un uomo che per quasi quattro decenni ha rappresentato una parte significativa della cultura di Adrano e Biancavilla. È stato, infatti, prima insegnante e poi preside di quel Liceo classico da sempre fucina di classi dirigenti e intellettuali, non solo locali. Chi è stato insegnante nel «suo» liceo ha conosciuto le sue doti di dirigente, di organizzatore scolastico, di studioso del mondo classico. Lo ha visto presiedere consigli di classe e collegi dei docenti, ha letto i suoi lavori, dedicati a Euripide, a Virgilio, alla didattica del latino. Chi è stato studente del Classico lo ricorda sotto un’altra veste, più umana, più vicina.

Appartenendo a quest’ultima categoria, sollecitato da Biancavilla Oggi, traggo dalla memoria qualche ricordo, qualche aneddoto che ne metta in luce le qualità professionali e umane. I miei ricordi appartengono alla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Anni cruciali che hanno visto la riforma degli organi collegiali, con i decreti delegati del 1974, e dunque la partecipazione dei rappresentanti dei genitori e degli studenti alla vita della scuola.

Anni che hanno visto anche, per certi aspetti, la fine di tante illusioni, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978. Lo scrivo perché in quella triste occasione fu il preside, insieme ai professori, a convocare l’assemblea degli studenti, a informarci e a farci discutere e prendere coscienza di quello che era accaduto. 

Quando i presidi non erano dirigenti

I presidi non erano ancora dirigenti scolastici, e questo significava più attenzione alla didattica, alla formazione, alle conoscenze degli studenti. In altre parole, il preside era ancora un organizzatore di cultura, in quanto lui stesso intellettuale, e non solo un esperto di diritto amministrativo.

Non posso dimenticare quelle volte in cui, quando mancava l’insegnante curriculare, entrava in classe il preside Pistorio a fare la supplenza. Dopo qualche comprensibile apprensione da parte nostra, subito riconoscevi lo studioso che traduceva in versi le Bucoliche di Virgilio, che ti sorprendeva parlando mezz’ora su una sola parola e ti apriva un mondo, che ti affascinava con una lezione sulla Divina Commedia.

Scampagnate, gite e pranzi luculliani

Ovviamente, c’era anche l’aspetto umano, quotidiano, quello che lo rendeva più vicino ai ragazzi. In questo campo gli aneddoti sono infiniti. Le scampagnate, i gemellaggi e i pranzi luculliani vedevano la partecipazione della mia classe cui non mancavano mai il preside e i professori.

Già, perché il preside Pistorio era un buongustaio, un fine intenditore de re coquinaria, amante della buona tavola e delle conversazioni. E noi, che sapevano di questa sua «debolezza», facevamo il mestiere di studenti. Ne approfittavamo, organizzando spesso di questi incontri conviviali. Lo facevamo sotto lo sguardo bonario del Preside Pistorio. Per lui, le scampagnate o le gite scolastiche, che si alternavano tra Chianciano e Rimini, erano momenti di crescita umana oltre che culturale.

In questa occasione, scoperta la targa che lo commemora, non posso allora non pensare con nostalgia al Preside Pistorio e a quello che ha rappresentato per la mia generazione. Penso all’uomo di scuola e di cultura che ha incarnato, insieme al corpo docente di quel periodo (Saro Franco, Pietro Biondi, don Leone Calambrogio, Concetta Distefano Gulino, Carmelo Fichera, Placido e Vincenzo Portale ecc.), un modello di scuola seria, a volte difficile, ma sempre a misura d’uomo.

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